Articolo pubblicato nella rivista n.6/2023 di Civiltà del Lavoro
«Una grande curiosità mi ha consentito di affrontare diversi campi del sapere nell’esaltante ruolo di dilettante, inteso nel senso di colui che coltiva un’arte, una scienza o più in generale qualsiasi espressione della cultura per pura passione, quindi senza alcuna finalità pratica, non condizionata da alcun preconcetto, senza pregiudizi ideologici avendo l’esclusiva finalità del gusto dell’avventura intellettuale – un gusto che mi ha sempre fatto sentire una sorta di “avventuriero” del pensiero», così Gianfranco Dioguardi, Cavaliere del Lavoro, fondatore e presidente onorario della omonima fondazione, docente universitario e fra i soci fondatori dell’Associazione Italiana di Ingegneria Gestionale, si definisce nelle prime pagine della suo recente saggio “Verso un mondo nuovo. Per un’autobiografia intellettuale”.
Attraverso un percorso di riflessione di raro pregio, animato dal pensiero di filosofi, economisti, scienziati, matematici ed enciclopedisti, tra cui Cartesio, William of Ockam, Pierre-Simon Laplace, Denis Diderot o Nicolas de Condorcet, solo per citarne alcuni, il lettore viene accompagnato in una costante e approfondita esplorazione sui temi del libero arbitrio, della conoscenza e sul più ampio concetto di libertà come essenza stessa dell’essere umano. La lettura sorregge la fabbrica del pensiero, e quindi la libertà. Nella sua opera lei lancia un accorato appello alla conoscenza, al dovere di ricercarla, farla propria e amarla.
Vorrei iniziare soffermandomi sul concetto di libertà come facoltà essenziale dell’individuo, spesso sottovalutata, che consente al pensiero di vagare libero senza limiti o costrizioni. Una facoltà che il soggetto può esercitare in qualsiasi momento e in qualsiasi condizione esterna in forma del tutto libera o guidando l’intelletto verso finalità scelte dal soggetto stesso. Lo aveva ben intuito René Descartes, il filosofo Cartesio, quando impostò l’essenziale Discorso sul metodo (1637) sul “Cogito ergo sum”, ovvero “penso dunque esisto”, ponendolo alla base della sua filosofia e dell’esistenza stessa d’ogni persona. E finché il pensiero rimane tale può vagare liberamente anche in presenza di situazioni esterne coercitive. La libertà di pensiero stimola l’immaginazione a generare idee che possono essere espresse in testi scritti, appunto i libri, o in azioni pratiche – entrambe le situazioni comunque vincolano il concetto di libertà rispetto a leggi pensate per garantire le libertà altrui o vincoli etici legati da usanze storicamente consolidate, spesso anche arbitrarie dettate da consuetudini imposte dal dominio del pettegolezzo o del politically correct.
Comunque, le idee nate dalla libera immaginazione sono generalmente apportatrici di processi di innovazione anche capaci di modificare l’usuale modo di vivere, facendolo evolvere da situazioni note verso l’ignoto tipico del futuro. Così, si innesca il processo del cambiamento evolutivo che già la filosofia greca con i seguaci di Eraclito avevano evidenziato nel «panta rei» ovvero nel tutto scorre.
Per stimolare la libera immaginazione verso sempre nuove frontiere conoscitive ecco la lettura e i libri che, certificando lo stato del presente in funzione di quanto è avvenuto nel passato, “sorreggono la fabbrica del pensiero” per guidare l’immaginazione verso sempre nuovi sentieri in grado di far evolvere lo stato del mondo.
Tutto ciò deve consentire di dare un senso al difficile mestiere dell’esistenza, un mestiere complesso che spesso può portare a considerazioni amare e demotivanti nella riproposizione del mito di Sisifo, impegnato a portare il macigno dell’esistenza in cima alla montagna per poi vederlo ricadere già e dover ricominciare da capo, in un lavoro spesso ripetitivo che appare del tutto inutile. Eppure, seguendo l’insegnamento di Albert Camus, è necessario pensare anche Sisifo felice. Ma come si fa se non gli si attribuisce un ideale mutevole che non può che essere il fenomeno della curiosità di apprendere sempre nuova conoscenza. Da qui “l’accorato appello a ricercarla, farla propria e amarla”. Il primato della ragione umana, centrale nella lezione illuminista, rischia di essere travolto dal diffondersi della tecnologia e dell’intelligenza artificiale? Quanto si è già detto oggi è messo in discussione da uno strano fenomeno. Grazie proprio alla enorme diffusione di tecnologie informatiche e digitali, si è verificata una straordinaria facilità di acquisizione di conoscenza, ma come tutte le cose troppo facili da ottenere si è subito determinata una situazione di banalizzazione fortemente negativa che ha penalizzato la nascita di nuove, libere idee. Il modo di ragionare informatico digitale si basa su di in sistema binario di ragionamento (si/no, acceso/spento, 0/1, e via dicendo) che ripropone un “neo-taylorismo intellettuale”.
Il taylorismo aveva suddiviso gli individui in esseri in grado di pensare e programmare e poi soggetti destinati esclusivamente all’esecuzione dell’«One best way». Come se si fosse in presenza di un Mr. Hide e un Dott. Jekil o, se si vuole, immaginando soggetti divisi a metà come il visconte di mezzato di calviniana memoria. L’enorme successo dei nuovi apparati digitali, protagonisti del consumismo di massa, ha radicalmente cambiato il rapporto macchina-utente. Si è modificato il processo di delega tecnologica tipica del rapporto operatore-computer, sia perché la loro enorme diffusione ha reso gli smartphone strumenti indispensabili per la vita odierna, con un uso costante che impegna tutta la popolazione dai giovanissimi fino alle persone più anziane, assumendo una vera e propria funzione di «protesi» per l’essere umano che ormai vive di fatto in una simbiosi indissolubile con la tecnologia digitale. Peraltro, va considerato che ogni macchina digitale non è uno strumento che l’essere umano può plasmare a sua misura. La macchina digitale funziona in base a un sistema di regole che l’interessato ignora, e che è costretto ad accettare.
Tutto ciò sta provocando pericolosi effetti su alcune fondamentali facoltà degli individui, quali l’indebolimento della memoria e della immaginazione, delle stesse capacità di analisi critica ormai demandate a questa sorta di protesi digitale, con relativo avvilimento anche di alcuni valori essenziali di etica sociale. Ma così l’essere umano ha di fatto perso parte della sua libera autonomia perché, se privato della protesi smartphone, si troverebbe in gravi imbarazzi decisionali per i suoi stessi comportamenti esistenziali, finendo per essere tayloristicamente assoggettato agli algoritmi tecnologici immessi nell’hardware delle macchine da soggetti pensanti e per di più sconosciuti. Francesco Varanini ha scritto Le cinque leggi bronzee dell’era digitale e perché conviene trasgredirle (Guerini, Milano 2020), un importante saggio critico proprio su questi argomenti.
Quali sono i limiti alla trasformazione della conoscenza in coscienza? Le moderne tecnologie, comprese quelle legate a internet, consentono con immediatezza di dare risposte a qualsiasi interrogativo conoscitivo. Tutto ciò aumenta in forma pressoché illimitata le possibilità di conoscere, ma si tratta di una conoscenza, come ho già detto, banalizzata che scorre via senza lasciare alcuna traccia, così che non si trasforma quasi mai in «coscienza» in grado di formare adeguatamente la personalità dell’individuo. In realtà stiamo generando una nuova categoria di soggetti aperti alla conoscenza, ma senza coscienza, esseri simbiotici legati in forma ormai irreversibile agli smartphone e apparecchi analoghi. Con quali problemi etici e sociali non sono ancora in grado di definire, ma il prossimo avvento dell’IA Intelligenza artificiale, dotata di totale autonomia decisionale, certo non fa ben sperare per il futuro del soggetto umano così come finora siamo stati abituati a considerarlo.
Nell’era digitale la struttura della lingua italiana sta cambiando. Quale invito rivolge ai giovani affinché custodiscano il nostro idioma come parte integrante della nostra cultura? Un po’ di storia per ricordare i “corsi e ricorsi storici” evocati da Giambattista Vico. Il 2021 è stato l’anno dantesco, e mi fa piacere ricordare proprio Dante, grande propositore della lingua italiana in quel Medioevo, oggi assimilato all’epoca in cui viviamo, mentre auspichiamo l’avvento di una sorta di neoumanesimo di tipo rinascimentale. Con l’avvento dei barbari nel Quinto secolo la lingua della Roma imperiale – il latino – era entrata in crisi rimanendo in uso limitatamente ai pochi sapienti e nelle scritture ufficiali, mentre la popolazione andava lentamente abituandosi a nuove forme di linguaggio. Verso la fine del 1200 si sviluppò a Bologna, e poi a Firenze, un movimento poetico ispirato da Guido Guinizelli che Dante nella sua Commedia, scrivendo di “Donne ch’avete intelletto d’amore”, definirà “Dolce Stil Novo” (Purgatorio XXIV vv.49-57). Lo stesso Dante Alighieri e poi Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e altri importanti autori dell’epoca utilizzeranno nelle loro opere il Dolce Stil Novo, modificandolo in quel «volgare» la cui diffusione sfocerà nella nuova lingua italiana.
Così, dalla evoluzione degenerativa del latino nasce, caratterizzato con l’antica eleganza del Dolce Stil Novo, l’«italiano» attuale. Tuttavia, oggi siamo in presenza di una degenerazione della nostra lingua che ricorda quanto avvenne per il latino, ma l’assenza di personalità straordinarie, quali Dante e i letterati suoi contemporanei, lascia che l’evoluzione del linguaggio parlato avvenga senza alcuna positiva influenza, con il pericolo che finisca col perdere la sua naturale eleganza, e ciò in un momento in cui il mondo avverte l’esigenza di recuperare la grande lezione umanistica di lingue ritenute estinte quali il greco, il latino e anche lo stesso italiano classico. Si avverte dunque la necessità di forgiare l’attuale comunicazione linguistica ricercando un nuovo Dolce stil novo per il Terzo millennio in grado di accogliere le naturali modificazioni in atto nella lingua italiana, conservandone l’antica gentilezza ed eleganza. Il compito dovrebbe essere svolto proprio dagli studenti, giovani protagonisti dei cambiamenti in atto, che tuttavia possono diventare gli innovatori di un corretto e peraltro inevitabile cambiamento linguistico. Anche in questo caso l’utilizzo della lingua scritta nei libri diventa essenziale e auguriamoci che le Università siano in grado di sensibilizzare i loro allievi a questi cambiamenti.
Vorrei ricordare al proposito, soprattutto proprio ai giovani, il pensiero di Joseph Roth: “Le parole sono più potenti delle azioni […] quanto sono deboli i fatti. Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata solo da un essere umano”. I libri sono libertari, antidoto alle verità uniche, strumenti di comprensione delle differenze e fortini di tolleranza. Come garantire la sopravvivenza della civiltà del libro? Nelle situazioni descritte è evidente che il libro “libertario” potrebbe e forse dovrebbe svolgere una funzione essenziale sulla costruzione di una diversità intellettuale fondamentale per la specie umana. Anche Giovanni Paolo II, un grande Papa, lo aveva messo in evidenza in una sua omelia natalizia del 1978: “Natale è la festa dell’uomo. Nasce l’Uomo. Uno dei miliardi di uomini che sono nati, nascono e nasceranno sulla terra. L’uomo, un elemento componente della grande statistica. […] L’uomo, oggetto del calcolo, considerato sotto la categoria della quantità; uno fra miliardi. E nello stesso tempo, uno, unico e irripetibile.” E poi proprio sui libri, vorrei ricordare anche una affermazione di Hermann Hesse nelle sue Letture da un minuto: “I libri non esistono per rendere sempre meno autonomo chi non ha carattere, e ancor meno esistono per elargire un raffinato e illusorio surrogato della vita a chi è incapace di vivere.
Al contrario i libri hanno valore soltanto se conducono alla vita, se servono e giovanno alla vita, ed è sprecata ogni ora di lettura dalla quale non venga al lettore una scintilla di forza, un presagio di nuova giovinezza, un alito di nuova freschezza.” Tutto ciò testimonia l’importanza del libro per un essere umano che debba sentirsi uno e differente da tutti gli altri. Ma il vero problema è come far ritornare, in particolare i giovani nati nell’era del digitale, all’amore per la lettura che è sempre fatica di apprendere, oggi che tutti temono la stanchezza anche intellettuale? Come preservare i libri stessi nelle loro forme tradizionali cartacee che consentirebbero appunto esercizi molto utili di lettura…Le biblioteche! Sì le biblioteche vanno ripensate e riproposte come luoghi non solo di consultazione ma di convivenza attiva e soprattutto vanno adeguate agli strumenti digitali e informatici per un loro utilizzo più idoneo ai tempi e in grado di stimolare nuove curiosità. Utopie? Chissà! Ma se non si torna a sognare saremo sempre più immersi in una realtà che, diventando più buia, finirà davvero per annientarci.