Articolo pubblicato nella rivista n.2/2024 di Civiltà del Lavoro
Viviamo una delle fasi più drammatiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per la prima volta, la pace che davamo per un valore acquisito è minacciata in maniera sempre più grave. Abbiamo la guerra in casa nel nostro Continente e, alle porte di casa, nel Sud dell’Europa e nel Mediterraneo.
Di fronte alle crescenti tensioni militari, geopolitiche ed economiche che caratterizzano lo scenario internazionale, abbiamo oggi bisogno di più Europa, ma di un’Europa diversa, che sappia essere più forte sul piano politico, più efficace e salda sul piano istituzionale, più competitiva sul piano economico e più equa sul piano sociale. Abbiamo cioè bisogno di un’Europa che possa contribuire a creare una governance globale più equilibrata, indispensabile per garantire pace e progresso. Per raggiungere questo obiettivo occorre ripensare radicalmente strategie e percorsi. Negli ultimi quindici anni ma, in particolare, nel corso della legislatura che si sta adesso chiudendo, si è andato sempre più rafforzando un vero e proprio processo di deindustrializzazione dell’Europa. Ci siamo illusi di poter essere i detentori dell’innovazione tecnologica, dell’intelligenza, di poter godere di livelli di welfare e di qualità della vita molto elevati senza dover produrre, anzi delocalizzando le nostre fabbriche nelle aree a più basso costo del pianeta. Dimenticando, così, la più elementare delle regole dalla prima rivoluzione industriale ad oggi, e cioè che manifattura, sviluppo, ricerca e innovazione camminano di pari passo. E ci siamo così sempre più impoveriti di posti di lavoro, di intelligenza, di capacità di innovare e sviluppare. Negli ultimi cinque anni l’ideologia del Green deal ha fortemente accentuato questa deriva, perseguendo il mito della cosiddetta decrescita felice, minando la competitività del sistema economico e industriale europeo e mettendo a serio rischio sia la tenuta sociale sia la stessa sostenibilità ambientale.
Filiere industriali a rischio
Sono state portate avanti una vera e propria messe di iniziative legislative che, in assenza di ogni neutralità tecnologica e soprattutto prive di ogni validazione scientifica del loro impatto ambientale, hanno fortemente compromesso intere filiere industriali, da quelle di base all’automotive, dall’agroalimentare al packaging e al farmaceutico, dalla chimica al tessile, senza dimenticare la tassonomia e l’energia. La quantità di iper-regolazione e la contraddittorietà ed erraticità delle legislazioni europee hanno creato un clima di incertezza che ha sempre più paralizzato, se non addirittura disincentivato, gli investimenti produttivi. Nel frattempo, le altre grandi potenze economiche del pianeta hanno portato avanti una forte politica di rafforzamento del loro tessuto industriale e della loro competitività. In particolare, oggi, assistiamo a una guerra economica, a cui noi europei siamo esposti in maniera significativa e rispetto alla quale dobbiamo saperci immediatamente attrezzare, recuperando una nuova strategia di sviluppo industriale e competitivo. Naturalmente, facendo leva su industrie di qualità, sostenibili e innovative, come sappiamo di poter fare. Si tratta di uno scenario che ha messo in evidenza di recente anche Mario Draghi in occasione della Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali, sottolineando come negli ultimi anni le altre grandi potenze economiche del pianeta abbiano portato avanti una forte politica di rafforzamento del loro tessuto industriale e della loro competitività, spesso attraverso politiche tese a renderci strutturalmente dipendenti da loro. Tutto ciò indebolisce il nostro tessuto economico e sociale e, in particolare, indebolisce i ceti medi. La storia ci insegna che quando il ceto medio viene a soffrire o viene compresso, e purtroppo questo è quanto sta accadendo in tutte le democrazie occidentali negli ultimi anni, nascono poi intolleranze, razzismi, sentimenti che hanno proiettato nel secolo scorso ombre terribili e che noi dobbiamo saper combattere, saper contrastare, riaffermando i valori e le opportunità della nostra civiltà e della nostra storia.
Cambiare passo per un’Europa diversa
È per contrastare questi rischi e le derive del regresso e dei populismi che, come dicevo, abbiamo bisogno di Europa. Ne abbiamo bisogno oggi più che mai. Abbiamo bisogno però di un’Europa, come sottolineavo, diversa. Meno autoreferenziale. Ne abbiamo bisogno per garantire la pace, ne abbiamo bisogno per governare la sostenibilità del pianeta, ne abbiamo bisogno soprattutto per garantire quel benessere, quella difesa delle conquiste sociali che sono un patrimonio della nostra storia e della nostra civiltà e che sono anche indispensabili per la stabilità e l’equità sociale. L’Europa concepita dai padri fondatori, nell’era post-bellica, prometteva sicurezza, crescita e prosperità, ma queste promesse si ancoravano principalmente al potenziamento dell’economia e dell’industria, vitali per il benessere e la coesione sociale di popolazioni che avevano subito le atrocità della guerra. Il visionario progetto di Jacques Delors nel 1992 proponeva la creazione di un vasto mercato unico come strumento principale per assicurare libertà, crescita e stabilità. Tuttavia, questo periodo di costruzione si è trovato a naufragare con l’ampliamento dell’Europa nel 2004, un processo affrettato e carente in termini di governance decisionale. Altrettanto critico, se non di più, è stato il fallimento del progetto di una Costituzione europea, e in particolare la difficoltà nel condividere i valori e gli ideali fondamentali che formano la nostra identità europea. Mai come ora abbiamo bisogno di più Europa, ma di un’Europa più unita nei suoi valori, più competitiva dal punto di vista economico, più forte dal punto di vista istituzionale e quindi più rilevante dal punto di vista politico. Per questo le prossime elezioni europee sono le più importanti della nostra storia. Oggi l’Europa è al bivio, o siamo pronti a ricostruirla o rischiamo l’implosione.
Antonio D’Amato è stato nominato Cavaliere del Lavoro nel 2005. È presidente del Gruppo Seda, azienda di famiglia fondata nel 1964, leader mondiale nel settore del packaging per alimenti. Oggi il gruppo Seda conta 13 stabilimenti e produce in Italia, Germania, UK, Portogallo e Stati Uniti. Ha oltre 3.500 dipendenti e tra i suoi clienti annovera i più grandi marchi dell’industria alimentare del mondo. Il 50% del fatturato è prodotto in Italia e, di questo, il 70% è esportato all’estero.