Menu

UNIVERSITÀ, MERITO e autonomia accademica di Pietro e Sebastiano MAFFETTONE | Civiltà del Lavoro 2/2024

24.09.2024

Articolo pubblicato nella rivista n.2/2024 di Civiltà del Lavoro

Sia in Italia che nel resto del mondo si torna a parlare di Università. Viviamo tempi difficili, che evidentemente impongono una riflessione sui processi di formazione della gioventù. Spesso, il discorso sull’Università è in negativo, insiste cioè sui difetti dell’istituzione più che proporre una via promettente da percorrere. Non è detto, però, che le critiche non possano suggerire indirettamente delle proposte. Il punto centrale che accomuna nel seguito critiche diverse tra loro è costituito dal ritenere che l’alta formazione dovrebbe essere basata sul merito scientifico e il rigore culturale, e che questi debbano contribuire alla formazione di un pensiero critico, mentre invece spesso così non è. In particolare, le critiche che prenderemo in considerazione, di fondo, pongono la questione dell’autonomia della sfera accademica, e delle storture che tendono a prodursi quando questa autonomia viene compressa da logiche e metodi che provengono da altri ambiti.


TROPPA IDEOLOGIA CANCELLA IL MERITO

Partiamo quindi dagli argomenti critici sull’Università. Il primo lo possiamo trovare in un intervento di un famoso storico, Niall Ferguson, intervento dedicato al tradimento degli intellettuali. Questo tradimento è quello che ha dato la stura alla “cancel culture” e agli atteggiamenti “woke” nelle maggiori Università degli Stati Uniti. Come sappiamo, questi sono cultura e atteggiamenti anti-Occidentali, in nome dell’antirazzismo, dell’antisessismo, dell’anticolonialismo e via di seguito. L’aspetto apparentemente peggiore del wokismo in questione è costituito dalla sua indole censoria. Tutto ciò contribuisce a creare un clima di intimidazione e timore che di certo non favorisce la vita accademica.

Ma – sostiene Ferguson – c’è molto di più da stigmatizzare. Il vero tradimento degli intellettuali, ai suoi occhi, consiste nel fatto di sostituire il merito scientifico con altri criteri – come quelli legati a genere, razza e sostanzialmente identità – nella selezione del personale accademico (i professori) e nel contenuto didattico. Proprio quegli intellettuali che dovrebbero avere più caro di tutti il valore e il significato del sapere finiscono così con civettare con criteri diversi. Con la conseguenza di peggiorare la qualità dell’offerta formativa, del corpo docente, del materiale didattico e alla fine degli studenti. Ma la vis polemica di Ferguson non si arresta qui. Perché, sempre a parer suo, la tendenza attuale è foriera di conseguenze politiche potenzialmente disastrose. Cancel culture e atteggiamenti woke, con i loro effetti politici, somiglierebbero infatti in maniera notevole a quanto successo nelle Università tedesche prima del Nazismo (erano allora le migliori del mondo come probabilmente ora lo sono Harvard, Princeton, Yale di cui parla Ferguson). La critica di Ferguson è rivolta principalmente alle grandi università anglosassoni, ma non è affatto priva di presa sull’università italiana. I recenti episodi di eventi accademici sulla guerra in Medioriente “cancellati” a causa delle proteste, a prescindere da cosa si pensi nel merito sulla questione, ne sono un segno evidente.

Anche se il parallelo con la Germania degli anni Trenta appare assai discutibile, tuttavia le osservazioni di Ferguson, nel loro complesso, non sono prive di fondamento. La formazione di una coscienza critica non può avvenire in un clima di censura reale o di auto-censura preventiva delle idee di professori e studenti. Il rispetto reciproco, la non-violenza, e la massima libertà di espressione sono presupposti indispensabili per il funzionamento di un sistema di formazione terziaria. Nelle università si deve poter pensare liberamente anche a costo di “offendere” le sensibilità di alcuni. Allo stesso tempo va fatto notare che, sempre in ragione della loro natura progettuale, nelle università, l’intervento massivo delle forze dell’ordine per combattere fenomeni di protesta da parte degli studenti ideologicamente impegnati andrebbe fortemente limitato, se non del tutto evitato. Detto altrimenti, la logica della contrapposizione identitaria e sanzionatoria adottata da alcuni e le risposte repressive messe in campo da altri per porvi rimedio costituiscono una politicizzazione delle università nel senso deteriore del termine. In questo modo, società civili sempre più polarizzate trovano un altro luogo dove esprimere le loro divisioni politiche comprimendo di fatto l’autonomia della sfera accademica.


UNA DISCUTIBILE BUROCRATIZZAZIONE COMPETITIVA

Una seconda critica origina invece dal modo in cui è stata progressivamente interpretata l’idea di accountability pubblica (la capacità di rendere conto) nel contesto universitario. Detto altrimenti, se l’intervento dei pubblici poteri è essenziale per mantenere viva la missione propria delle università, ci si deve certamente interrogare sul modo in cui ciò debba avvenire.

Il modello prevalente di accountability pubblica attualmente in voga è ispirato al New Public Management in Higher Education (NPM) di matrice britannica (dai tempi di Mrs. Thatcher). Lo si constata seguendo l’andamento del cosiddetto Bologna Process (dal 1999) e la creazione della European Higher Education Area (EHEA). In entrambi i casi, prevale l’apertura dell’Università alla società civile e al mercato come era stato del resto anticipato dalla Magna Charta Universitatum (1988) e dalla Lisbon Recognition Convention (1997).

Questo modello di accountability, come vedremo, pone però dei problemi sia dal punto di vista degli scopi che dei mezzi adoperati (in Italia sono note le critiche degli animatori del sito Roars). In termini generali, NPM tende a ridurre l’autonomia accademica e scientifica delle università – quella tipica dell’approccio di sociologia della cultura alla Merton – e a rendere il mondo universitario più omogeneo a quello di altri settori oggetto di politiche pubbliche come, per esempio, la sanità. Questa riduzione della specificità accademica dovrebbe avvenire attraverso l’introduzione di standard di misura quantitativi e qualitativi omogenei e sempre più indipendenti dalle valutazioni scientifiche dei professori. L’esito consiste nel trasformare un’attività formativa e culturale in un coacervo di misure, attentamente monitorate da esterni. Una conseguenza diretta di questa scelta consiste nella creazione di comitati e strutture – del tipo dell’italiana ANVUR (agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) – di solito nominati dallo Stato (tramite il Ministero) con il compito di uniformare e orientare il lavoro delle istituzioni accademiche.


PER CONCLUDERE

Abbiamo detto all’inizio che il rinnovato e benvenuto interesse per l’Università prende spesso lo spunto da critiche a questo o quell’aspetto del sistema accademico. Anche perciò, per dirla con Montale, dobbiamo partire da ciò che non siamo, da ciò che non vogliamo. Non vogliamo un’Università troppo ideologica che limiti la libertà di espressione e che non consideri il merito accademico e scientifico come il punto di partenza per qualsiasi visione della alta formazione. Non siamo pronti ad accettare una visione economicistica e puramente strumentale dell’Università, in cui lo studente è considerato solo ed esclusivamente cliente e futuro lavoratore.

Nelle società contemporanee, le persone occupano più ruoli. Sono in primo luogo individui che portano con sé un bagaglio di esperienze, non ultime fra di esse, esperienze culturali. Sono poi cittadini che debbono partecipare alla vita politica del Paese. Sono certamente anche lavoratori che avranno bisogno di trovare una collocazione all’interno di un sistema produttivo. La formazione terziaria non deve rinunciare al tentativo di contribuire allo sviluppo delle capacità di ognuno di occupare questi ruoli in maniera consapevole. Lo sviluppo di una coscienza critica, in questo senso, non fa tanto riferimento a un contenuto quanto piuttosto a un metodo. La sfida non consiste nello scegliere quale “parte” delle persone si voglia coltivare all’interno delle università, ma nel far crescere in maniera bilanciata l’autonomia di individui che occupano ruoli diversi.

Per ottenere questi scopi, è importante che la sfera pubblica stabilisca delle regole da rispettare. Tuttavia, queste regole pubbliche non devono trasformarsi in una gabbia iper-burocratica, che nasconda i problemi reali dell’Università, primo tra tutti quello di mantenere al centro del progetto istituzionale lo studio e la riflessione. Tenere insieme accountability pubblica e indipendenza delle università è certamente un compito complesso. Il tentativo – magari astratto ma non privo di significato – dovrebbe essere quello di spostare l’attenzione dalla ricerca dell’eccellenza a quella della decenza; di non incentivare la competizione, ma di evitare abusi e storture. Intendiamoci, questo non significa che le università non debbano premiare il merito accademico, o che i ricercatori che le popolano non debbano aspirare a fare il meglio possibile con la libertà che gli viene (o quantomeno dovrebbe essere) concessa. Significa invece che il ruolo dello Stato e delle sue regole non è quello di spiegare a chi studia e lavora nelle istituzioni di alta formazione quali siano i modi migliori di perseguire le virtù che dovrebbero caratterizzare le pratiche accademiche ma bensì quello di evitare che di questa libertà si faccia un uso improprio.

Sfoglia l’articolo

Scarica la rivista completa

SCARICA L'APP