Menu

DEMOGRAFIA, TECNOLOGIA, FORMAZIONE | Civiltà del Lavoro 4-5/2024

02.02.2025

“La demografia finalmente comincia ad essere considerato un tema imprescindibile – ha affermato Alessandro Rosina, ordinario di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano”. Le proiezioni consentono di avere quella che sarà, per esempio, nel 2050 “l’infrastruttura della popolazione, attorno alla quale costruire il vestito sociale ed economico più adatto”.
La situazione dell’Italia purtroppo è tutt’altro che rosea, ha spiegato il docente. All’interno della transizione demografica vissuta nell’ultimo secolo dai principali paesi avanzati – fenomeno che si è caratterizzato per la riduzione della mortalità e la riduzione della natalità – sono intervenuti due imprevisti: una longevità progressiva e una fecondità in diminuzione. “Una struttura della popolazione con queste caratteristiche diventa complicata da gestire”, ha sottolineato Rosina, e soprattutto richiede che la consistenza della popolazione in età lavorativa resti solida. Mentre paesi come Francia e Svezia hanno lavorato in questa direzione, l’Italia assiste a uno “svuotamento inedito” rispetto al passato e in prospettiva “avremo una maggiore riduzione della popolazione in età attiva lavorativa”, che si traduce in un problema per la sostenibilità della crescita economica e del modello di welfare.
La diagnosi di Rosina sull’Italia è netta: “Non abbiamo migliorato la condizione occupazionale dei giovani – ha affermato –, siamo il paese con il più basso tasso di occupazione giovanile, abbiamo anche la più alta percentuale di giovani che non studiano e non lavorano e ne perdiamo anche di più perché, rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo, c’è un maggior flusso di giovani qualificati che si spostano e vanno verso la Francia, la Germania o altri paesi”. Che fare? La soluzione, secondo il docente, sta in un mix di politiche a favore delle nuove generazioni, a favore dell’occupazione femminile e in politiche per una immigrazione che si integri con i modelli sociali ed economici dei territori.
“Bisogna fare tutto questo con politiche adeguate e non navigando a vista – ha aggiunto –. La scelta di avere un figlio è l’impegno maggiore che si ha nei confronti del futuro e non può essere disconfermato o confermato manovra dopo manovra. Ha bisogno di un paese che diventa lungimirante”.
Velocità di elaborazione, capacità di memorizzazione, velocità di trasmissione. Tre parametri che contraddistinguono da sempre le tecnologie digitali e che da quando queste ultime sono state introdotte, verso la fine degli anni Quaranta, “sono migliorati milioni di volte”. Con questa premessa Gianluigi Castelli, associate professor of Practice di information systems della School of Management dell’Università Bocconi, ha aperto la seconda sessione. Tra gli effetti di questa evoluzione, ha sottolineato il docente, vi è di certo la democratizzazione del loro uso e un certo accrescimento della conoscenza delle persone; allo stesso tempo, si è osservata la nascita di nuove opportunità lavorative, che tuttavia ha messo in luce anche l’insufficienza di competenze sia nel settore hardware che nel settore software. Fino agli anni Settanta, ha ricordato Castelli, “l’Italia era uno dei poli fondamentali nel mondo delle tecnologie digitali”, con diverse aziende leader; poi a un certo punto “per condizione di mercato la manifattura è venuta a mancare e si è rotto il ciclo virtuoso che creava grandi competenze generate dalla domanda di queste aziende nei confronti delle università, competenze che poi si riversavano nelle aziende utenti, nelle banche, creando una comunità molto coerente e ben sviluppata”. Proseguendo il docente ha messo in guardia dai rischi della curva dell’Hype: “Ogni volta che appare una nuova tecnologia digitale, sembra che questa debba cambiare il mondo”. Tutto questo è negativo “perché le aspettative inflazionate portano a errori negli investimenti, ad anticipare l’adozione di tecnologie quando l’impresa stessa magari non è ancora pronta e matura”. Con riferimento all’Intelligenza artificiale Castelli ha citato ChatGpt e gli assistenti intelligenti in uso crescente, strumenti che “hanno colpito molto l’immaginario delle persone, perché sembra davvero che sia una grande capacità di creazione di conoscenze”. In realtà si tratta di una piccola parte rispetto agli ambiti e alle applicazioni più profonde che possono scaturire, fermo restando che occorre prestare attenzione alle cosiddette “allucinazioni”, ovvero informazioni inventate e inesatte prodotte dalla Ia generativa, e al fatto che i dati stessi presentano pregiudizi sui quali bisogna stare attenti.
Quale sarà allora l’impatto futuro? “Credo sia difficilissimo fare previsioni – ha concluso Castelli –. Oggi l’innovazione tecnologica non è sostanzialmente diversa dalle innovazioni tecnologiche che l’hanno preceduta. Però è caratterizzata da un elemento molto specifico che è la velocità del cambiamento, che è quello che, molto frequentemente, ci trova impreparati a fare le giuste considerazioni e le giuste riflessioni. Però, anche nel caso dell’Ia, sta a noi scegliere se vogliamo vivere in un mondo potenziato dall’Ia oppure infestato dall’Ia”.
La scuola è fondamentale, forma la personalità e getta le basi affinché l’individuo “impari ad imparare”; un processo che nel mondo che viviamo e in quello che ci attende sarà sempre più sollecitato. Da questa considerazione ha preso le mosse Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata all’Università di Bari Aldo Moro, che ha parlato di istruzione, competenze e scuola. Quest’ultima funziona sempre meno come ascensore sociale e presenta significative differenze di funzionamento e performance tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Il nostro Paese, inoltre, investe poco nell’università e soprattutto offre “un rendimento monetario dell’istruzione, del diploma e ancora più della laura, più basso che negli altri paesi”. Fra gli altri aspetti esaminati, il docente ha posto l’accento sulla necessità di “una formazione lungo l’intero arco della vita”, nella quale tuttavia l’Italia non vanta una grande tradizione. Oggi una parte della formazione degli adulti viene condotta sempre più spesso in azienda e questa attività, oltre a crescere proporzionalmente con le dimensioni dell’impresa, “negli ultimi 15 anni in Italia è fortemente aumentata”.
A questo proposito Viesti ha citato il recente studio condotto sulle Academy dei Cavalieri del Lavoro, che ha offerto una panoramica su esperienze molto diverse fra loro ma tutte accomunate da un obiettivo: “dare un senso di appartenenza, di condivisione di valori, di lavoro di squadra”.
Viesti ha illustrato anche le differenze fra il modello di trasmissione delle conoscenze in azienda di stampo anglosassone – Business School e competenze standardizzate – rispetto al modello italiano, in cui le competenze, tacite, venivano trasmesse attraverso l’affiancamento, il praticantato. Questa differenza deriva dalla capacità tutta italiana di realizzare prodotti molto diversi fra loro. Dal canto loro, “le Academy possono rappresentare una via di mezzo, un tentativo di diffondere, nel corpo dell’impresa, più professionalmente, più sistematicamente questo insieme di conoscenze”. “La previsione degli imprenditori con cui ho parlato – ha aggiunto Viesti – è che questo processo aumenterà. A me, personalmente, sembra un’ottima cosa, uno dei tanti tentativi che vanno fatti per rendere il nostro Paese, le nostre imprese, sempre più protagoniste in questo quadro, che presenta sfide non irrilevanti”.

Sfoglia l’articolo

Scarica la rivista completa

SCARICA L'APP