L’ Europa ha vissuto negli ultimi decenni una condizione di particolare favore: alla difesa pensavano gli Usa con l’ombrello atomico; l’energia a basso prezzo arrivava dalla Russia e dall’Africa; le produzioni di massa erano appaltate alla Cina. Ma ora tutto è cambiato, come segnala Mario Draghi.
Gli Stati Uniti non sono più disposti a fornirci gratis la sicurezza; con l’aggressione russa all’Ucraina si è quasi azzerato il flusso di gas dalla Russia; la Cina non si contenta più di fornirci produzioni di bassa qualità ed è diventata un pericoloso competitor su prodotti tecnologicamente avanzati, dalle auto elettriche ai pannelli fotovoltaici. Questa “rivoluzione copernicana” impone all’Europa un profondo ripensamento del suo ruolo, della sua architettura istituzionale e delle sue politiche. Non basta più l’Unione “incompiuta”, costruita sulle intese intergovernative e sulla moneta unica, in cui le decisioni strategiche su politica estera, difesa, energia, innovazione e finanza sono rimasti agli Stati nazionali. E non basta più un bilancio Ue che è poco più dell’1% del Pil europeo, mentre il bilancio federale Usa supera il 20% del Pil americano. Su questo scenario inizia la sua navigazione la nuova legislatura europea e la nuova Commissione di Ursula Von der Leyen con il nostro Raffaele Fitto vice presidente esecutivo alla Coesione e al Pnrr (insieme al commissario all’Economia Dombrovsky). Le bussole sono il Rapporto Letta sul mercato unico e il Rapporto Draghi sulla competitività. Le sfide da affrontare sono decisive e si possono riassumere in questi capitoli.
Un nuovo rapporto con gli Stati Uniti
Il Presidente Trump ha lanciato due sfide esplicite all’Europa: la prima è il riequilibrio della bilancia commerciale (a favore dell’Europa per 156 miliardi nel 2023) anche con la minaccia di dazi sulle importazioni europee. Il riequilibrio potrebbe avvenire con maggiori acquisti di prodotti energetici, a cominciare da petrolio e gas, dagli Usa anche per compensare le mancate importazioni russe. La seconda sfida riguarda i costi per la difesa e per la Nato: Trump chiede all’Europa di aumentare le proprie spese ben oltre il 2% del Pil concordato in sede Nato nel 2014 (noi siamo all’1,5-1,6%). Di recente, il Presidente Usa ha addirittura parlato del 5%, minacciando di non difendere (in base all’articolo 5 del Trattato Nato) i paesi che non aumenteranno le spese per la Difesa.
Infine, Trump vorrebbe un maggiore impegno europeo nella difesa dell’Ucraina, ipotizzando anche una forza europea di interposizione da 150-200 mila uomini in caso di tregua con la Russia. E c’è infine una minaccia implicita, ma molto rischiosa: Trump non apprezza l’Unione europea (al pari delle altre organizzazioni multilaterali) e cercherà di imporre rapporti bilaterali con i singoli paesi europei, scavalcando l’Unione anche nei settori, come la politica commerciale internazionale, dove l’Ue ha il massimo delle competenze. Se i singoli paesi europei accetteranno questo schema di rapporti bilaterali, potrebbero minare le fondamenta stesse dell’Unione.
La difesa comune
Nel 2023 la spesa militare globale ha raggiunto i 2.443 miliardi di dollari (più 6,8% sul 2022). Gli Usa hanno speso 916 miliardi, il 37% del totale, tre volte più della Cina (12% del totale) e 9 volte più della Russia (4%). I 27 paesi Ue, con eserciti di 1,5 milioni di soldati e 3.300 moderni carri armati, hanno speso 279 miliardi (l’Italia 28 miliardi). Se fossimo una federazione come gli Stati Uniti saremmo più o meno al livello della Cina e più di tre volte la Russia. Ma poiché le politiche militari sono rigorosamente nazionali, i nostri 279 miliardi “valgono” molto di meno. In particolare, noi paesi europei acquistiamo il 70% de gli apparati militari da paesi extra Ue (soprattutto Usa) e investiamo poco e male nello sviluppo di nuovi sistemi di difesa.
Da qui, oltre che dalla pressione di Trump, deriva la necessità di unificare le politiche e gli investimenti per la Difesa. La Ue ha varato nel marzo scorso un programma per l’industria della difesa che prevede incentivi per 1,5 miliardi per acquistare in maniera congiunta almeno il 40% dei sistemi per la difesa nel 2030 per arrivare al 60% nel 2035, sviluppando le produzioni europee. L’industria della difesa sta sviluppando progetti integrati, come quello della nostra Leonardo con la tedesca Rheinmetall per lo sviluppo di un nuovo carro armato, e chiede più risorse europee. E occorrerà integrare anche la Gran Bretagna alla Difesa comune. Tanto più che il nostro Paese ha siglato un accordo proprio con gli inglesi e i giapponesi per lo sviluppo di un nuovo aereo caccia. Non mancherà, dunque, il lavoro al nuovo commissario europeo alla difesa, il lituano Andrius Kubilius.
La competitività dell’economia
Dal 2019 al 2023 gli Stati Uniti sono cresciuti del 9%, la Ue del 4%; Dal 2008 i salari reali americani sono molto aumentati rispetto a quelli europei; le Borse americane capitalizzano il 75% delle Borse globali; le auto elettriche cinesi stanno penetrando in Europa.
Sono molti i segnali di perdita di competitività dell’Europa rispetto a Usa e Cina. Per invertire la rotta il Rapporto Draghi suggerisce un’ampia gamma di interventi e investimenti aggiuntivi per 800 miliardi l’anno, pubblici e privati. Lo stesso Draghi ha di recente esortato l’Europa a modificare il proprio “modello di sviluppo”, passando da uno schema trainato dalle esportazioni che ha mantenuto bassi i salari, a uno sviluppo trainato dalla domanda interna, che richiede più salari e più investimenti. Il “serbatoio” per questa rivoluzione sta nei 300-350 miliardi di risparmi annui che gli europei non impiega no per investire in Europa, ma che vengono affidati soprattutto a fondi americani. Sicché noi europei finanziamo la crescita americana e anche l’acquisto Usa di aziende europee.
Mobilitare queste risorse richiede una vasta gamma di misure, dal completamento del mercato unico (come spiega Enrico Letta nell’intervista che pubblichiamo nelle pagine seguenti) alla revisione degli aiuti di Stato, dalla sburocratizzazione a un aumento del bilancio europeo e del debito comune per finanziare i grandi programmi di modernizzazione come il Green Deal e la digitalizzazione.
Il bilancio e il debito comune
Per molti anni il debito comune europeo, suggerito tra gli altri da Romano Prodi e da Alberto Quadrio Curzio, è stato un tabù per la contrarietà dei paesi “frugali” del Nord, a partire dalla Germania. Poi è arrivata la pandemia e il debito comune è diventata una necessità: così la Ue si è indebitata per finanziare i 750 miliardi del Next Generation Eu e i 100 miliardi del programma Sure per sostenere la cassa integrazione.
Ora le nuove emergenze, dalla difesa comune al Green Deal, dalla digitalizzazione al sostegno di industrie in trasformazione come l’automotive, richiederebbero nuovo debito comune per rafforzare il bilancio Ue.
Si stima che l’Ue potrebbe emettere debito comune per tremila miliardi a tassi inferiori a quelli della maggior parte degli Stati membri. Il vantaggio sarebbe dunque significativo. Ma ci sono due problemi: per ripagare questi debiti la Ue dovrebbe aumentare le entrate fiscali proprie e per non aumentare la pressione fiscale europea, già molto elevata, gli Stati membri dovrebbero rinunciare a una parte delle proprie tasse. E poi un maggior debito comune richiede una riduzione dei debiti degli Stati membri, a cominciare da quelli più indebitati, come Italia, Grecia e Francia. Saremo disponibili a “sacrificarci” per far crescere il bilancio comune?
Riforme istituzionali e scelte politiche
Le sfide europee richiedono anche un assetto istituzionale europeo più flessibile ed efficiente, con trasferimento di sovranità dagli Stati membri all’Unione in settori come la difesa e il fisco, dove sinora le competenze sono rimaste saldamente nazionali. E ciò dovrebbe avvenire mentre in tutta Europa si rafforzano i partiti nazionalisti e sovranisti, che hanno aumentato la propria rappresentanza sia nell’Europarlamento, sia nella Commissione. È questa la grande contraddizione politica che pesa sul futuro della Ue. Riforme necessarie vanno dal superamento dell’unanimità e del diritto di veto dei governi nel Consiglio europeo, fino alla concessione all’Europarlamento di una piena capacità legislativa col potere di presentare disegni di legge e non solo di intervenire sulle direttive proposte dalla Commissione.
Gli Stati membri, e in particolare i governi nazionalisti, saranno disposti ad accettare queste riforme? O, in alternativa, sarebbe possibile una collaborazione rafforzata su singole materie (come la Difesa) di alcuni paesi, come avvenuto per la moneta unica? Sono le domande decisive per il futuro della nostra “casa comune”. Sarebbe importante che i grandi partiti europei ne discutessero a fondo, a cominciare dalla campagna elettorale per le elezioni tedesche di febbraio, per far capire a noi cittadini europei l’importanza della posta in gioco.