Civiltà del Lavoro, n. 3/2018

INTERVISTA 11 CIVILTÀ DEL LAVORO III - 2018 economiche che possono avere molti sbocchi. Pochi san- no per esempio che il Cnel, insieme all’Istat, ha elabora- to i Bes, gli “Indicatori di benessere equo e sostenibile”, che sono entrati nel Def e nella Legge di Bilancio e che noi d’ora in poi dovremo monitorare: si tratta di affianca- re agli indicatori economici quantitativi come il Pil, anche indicatori di tipi qualitativo per valutare l’andamento del benessere della società. Di recente abbiamo poi presentato al Parlamento il Rap- porto sull’efficienza della Pubblica amministrazione, che contiene proposte per migliorare le prestazioni della Pa, per esempio nel delicato settore dei pagamenti alle im- prese. E stiamo lavorando a un rapporto sul mercato del lavoro che esamina anche i nuovi lavori digitali, le occu- pazioni della cosiddetta “gig economy”. Una piccola e importante riforma, richiesta dal Cese a li- vello comunitario, è che i pareri e i rapporti del Cnel e dei suoi confratelli europei, vengano almeno discussi dalle as- semblee legislative: poter disporre di analisi e proposte meditate delle parti sociali potrebbe essere utile a un di- battito politico che spesso avviene su posizioni improvvi- sate e poco approfondite. Per migliorare la nostra efficienza interna stiamo modifi- cando i regolamenti per semplificare le nostre procedure. Infine, vorrei ricordare che da anni ormai il presidente e i consiglieri del Cnel lavorano senza compensi: qualcuno riceve dei rimborsi dalle proprie organizzazioni di prove- nienza, che non gravano sul bilancio dello Stato. Lei è stato il ministro che ha avviato il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, attraverso forme come i collaboratori coordinati continuativi, i famosi co.co.co. Secondo lei oggi c’è troppa o troppo poca flessibilità nel mercato del lavoro? Sono diventato ministro del Lavoro nel 1996, quando si sta- va impostando in tutta Europa la strategia del lavoro fles- sibile. Oggi in Italia non c’è troppa flessibilità rispetto alla media europea. Dove non siamo assolutamente in linea è sul bilanciamento tra flessibilità e sicurezza, nella cosid- detta “flexsecurity”. Abbiamo riformato opportunamente il sistema degli ammortizzatori sociali per estenderne la platea, ma siamo ancora molto indietro nella strumenta- zione per sostenere le transizioni lavorative, quindi poli- tiche attive del lavoro, servizi all’impiego, orientamento dei giovani, formazione permanente, accompagnamento dei disoccupati verso nuove occupazioni. Come valuta le proposte del governo Conte, che in- tende riformare i Centri per l’impiego per accompa- gnare verso il lavoro i disoccupati, compresi i giovani che un lavoro non l’hanno mai avuto? È indispensabile rafforzare i Centri per l’impiego, seguen- do l’esempio tedesco: in trent’anni la Germania ha costru- ito un’Agenzia nazionale forte di 100mila addetti, contro i nostri 9mila dipendenti dei centri per l’impiego. In Germania gli addetti all’Agenzia vanno in giro per le aziende a censire i fabbisogni lavorativi, vanno nelle scuo- le a orientare gli studenti nelle scelte formative, prendo- no in carico i disoccupati e li formano per i nuovi lavori richiesti dalle imprese. Uno dei problemi dei centri per l’impiego è che dipen- dono dalle Regioni e spesso non dialogano tra loro, oltre a non avere neppure sistemi informatici intero- perabili. Una delle riforme proposte dalla revisione costituzionale del Titolo V bocciata dai cittadini vole- va proprio riportare al centro la competenza sui Cen- tri per l’impiego. Questa è una delle ragioni per cui ho votato “sì” al refe- rendum costituzionale. Ricordo che quando ero ministro del Lavoro il mio collega tedesco mi disse che in Germa- nia, che è uno Stato federale con grandi poteri a livello di Laender, le politiche attive del lavoro e i Centri per l’im- piego sono di competenza federale, cioè vengono ge- stiti dal centro, proprio per evitare quella che lui definì la “balcanizzazione” delle politiche per l’occupazione. »

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