Civiltà del Lavoro, n. 3/2018
INTERVISTA 13 Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Di Maio ha detto che vorrebbe usare il Fondo sociale eu- ropeo proprio per riformare i Centri per l’impiego con risorse pari a due miliardi. È possibile l’uso dei fondi europei a questo scopo? Il Fondo sociale europeo serve a integrare i fondi nazio- nali, non a sostituirli, proprio perché le politiche attive del lavoro sono una competenza nazionale. E poi il Fondo so- ciale europeo viene suddiviso tra le Regioni e serve a fi- nanziare altri servizi come la formazione professionale; inoltre, non sono sicuro che i presidenti regionali saran- no disponibili a dare questi soldi al governo centrale per riformare i Centri per l’impiego. Questi ultimi sono la premessa del reddito di cittadi- nanza, il cavallo di battaglia del M5S. Cosa ne pensa? Un reddito minimo esiste in forme diverse in quasi tutti i paesi europei, ma è sempre mirato e condizionato al- la ricerca di nuova occupazione, attraverso l’impegno del soggetto percettore del reddito a seguire corsi di forma- zione e a rispondere positivamente alle proposte di lavo- ro che gli vengono sottoposte. A queste condizioni, che sono del resto quelle del Rei, il reddito d’inclusione già in vigore dallo scorso gennaio, sia pure in dimensioni più ridotte, può essere una riforma utile. Tra le condizioni del reddito di cittadinanza Di Maio ha inserito anche l’impegno a lavorare per il proprio Comune per otto ore alla settimana. Non le ricorda i “lavori socialmente utili”? Guardi, nel 1994 ero assessore al Lavoro del Comune di Milano e varammo un programma per far fare lavori di pubblica utilità ai cassintegrati milanesi di lunga durata: siccome erano pagati da un sussidio pubblico ci pareva giusto che potessero restituire in parte qualcosa alla co- munità sotto forma di lavori per il Comune. Fu un’espe- rienza positiva, perché venne adeguatamente gestita con programmi anche temporalmente definiti. In altre realtà, penso soprattutto a Napoli e Palermo, ab- biamo creato gruppi di 30mila lavoratori socialmente utili, i quali da molti anni pretendono di essere assunti in pian- ta stabile dalla Pubblica amministrazione. Questi progetti possono dunque funzionare, a patto di saperli gestire per un periodo limitato di tempo. Sul problema dei migranti stiamo vivendo una con- traddizione. Da una parte il governo vuole impedire l’afflusso dei migranti. Dall’altra parte le tendenze de- mografiche ci dicono che avremo sempre più bisogno di lavoratori provenienti dall’estero per evitare l’im- plosione del sistema produttivo e del welfare. Come risolvere la contraddizione? Al Cnel abbiamo un Osservatorio permanente sul feno- meno migratorio. Bisogna onestamente dire che negli ultimi decenni i mi- granti sono stati essenziali da noi come in Germania o in Gran Bretagna per reggere il sistema produttivo: l’indu- stria tedesca non potrebbe andare avanti senza i milioni di turchi che risiedono in Germania; il sistema produttivo inglese ha assorbito 100-150mila migranti l’anno; da noi ci sono intere aree economiche che si basano sul lavoro dei migranti, dalle acciaierie bresciane, agli allevamenti padani fino alle coltivazioni meridionali. Purtroppo negli ultimi anni, di fronte alla vera e propria invasione incontrollata dei barconi dall’Africa, ogni ten- tativo di organizzare flussi migratori ordinari e regolari è naufragata. Ricordo che da ministro del Lavoro, d’intesa con le organizzazioni imprenditoriali, programmavamo le quote di migranti regolari insieme al ministro dell’Interno di allora, il presidente Napolitano. Oggi l’unico modo per arginare le migrazioni incontrollate e tornare a organizzare flussi regolari, con condivisione di oneri e opportunità tra i vari paesi, è rafforzare il potere dell’Unione europea nel settore delle migrazioni. Speria- mo che gli Stati lo capiscano e agiscano di conseguenza. • Paolo Mazzanti CIVILTÀ DEL LAVORO III - 2018
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