Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2018

CIVILTÀ DEL LAVORO IV • V - 2018 55 DOSSIER medio-piccole (20-49 addetti) è leggermente calata (dal 7,2% al 6,4%), ma è rimasta costante in termini di distri- buzione degli addetti (il 16,5%). Le imprese con oltre 50 addetti sono appena il 3,6%, in linea con i valori del 2005, e assorbono il 52,8% dell’occupazione, arretrando di due punti dal dato del 2005. Incoraggianti sono i dati sulla na- talità, con le nuove imprese che sono tornate a supera- re per numero le imprese cessate, sia nel caso dell’indu- stria alimentare sia in quello dell’industria delle bevande, lasciandosi alle spalle la fase più critica: nel 2009 per la prima (con un tasso netto di turnover, calcolato come dif- ferenza fra il tasso di natalità e il tasso di mortalità, ne- gativo dell’1%) e nel 2006 per la seconda (tasso netto di turnover negativo allo 0,5%). I tassi di natalità, misurati dal rapporto percentuale fra le imprese nate nell’anno e la popolazione di imprese attive in quell’anno, al 2015 sono pressoché identici: il 5,2% per l’industria alimentare e il 5,3% per l’industria delle bevande. La maggiore efferve- scenza si osserva nel caso della lavorazione e conserva- zione di frutta e ortaggi (6,6%), mentre segnali di difficol- tà emergono nel caso della lavorazione e conservazione del pesce, con un tasso di mortalità dell’8,4% contro una media del settore alimentare del 5,0%. Fra il 2005 e il 2015 sono nate quasi 33mila nuove impre- se nell’industria alimentare con 66.167 addetti a fronte di oltre 34mila cessazioni e un’erosione di base occupaziona- le poco inferiore ai 66mila addetti. Nel caso dell’industria delle bevande, il saldo decennale è invece positivo, sia in termini di imprese nate (1.557 contro le 1.438 cessazioni) sia di addetti (2.153 l’occupazione creata dalle nuove im- prese contro i 2.009 persi a causa delle imprese cessate). Il tasso di sopravvivenza a cinque anni premia l’industria delle bevande che registra il 59,1% contro il 55,5% dell’in- dustria alimentare, che però rivela una forte varietà al suo interno: dal 70,0% dei prodotti per alimentazioni di ani- mali e il 60,7% dei prodotti da forno si scende al 38% della lavorazione e conservazione delle carni. La differente struttura fra i due macrosettori si percepisce ancor più guardando il grado di concentrazione e di inte- grazione verticale, nonché l’incidenza delle grandi impre- se e dei gruppi industriali. Il CR5, calcolato cumulando le quote sul totale delle prime cinque imprese ordinate per fatturato, è pari al 9,3% nell’industria alimentare contro il 22,2% dell’industria delle bevande. Le imprese alimentari rimangono anelli di una filiera agroindustriale che attinge – dalla terra e dal mare, dalle stalle e dalle sorgenti – ma- terie prime e prodotti agricoli per trasformarli attraverso processi di lavorazione, conservazione, refrigerazione, sur- gelamento, inscatolamento, imbustamento, affettazione, imbottigliamento, distillazione. La filiera si allunga e si ac- corcia di volta in volta, da filiera a filiera, ma è innegabi- le il contributo (e l’incidenza in termini di valore aggiun- to) di settori correlati, a monte e a valle, dal packaging alla logistica specializzata. Anche per tali motivi, il grado di integrazione verticale, misurato come rapporto percen- tuale fra il valore aggiunto e il fatturato, è solo il 18,1% per l’industria alimentare (in crescita dal 16,5% del 2009) e il 20,5% per l’industria delle bevande (in aumento dal 18,2% del 2009) contro il 24,1% medio dell’industria ma- nifatturiera nel suo complesso. La tendenza alla crescita registrata da entrambi i macrosettori lascia ipotizzare un effetto positivo dei processi di innovazione intrapresi ne- gli ultimi anni e intravedere una progressiva estensione del controllo sul processo di produzione, oltre a una mag- giore capacità di negoziazione con le grandi catene di ac- quisto della distribuzione alimentare. La quota di valore aggiunto delle grandi imprese (oltre 250 addetti), in percentuale del totale del settore, nel 2015 è stata pari al 31,8% per l’industria alimentare (oscillando fra il 29 e il 34%) e al 41,1% (variando fra il 36 e il 47%) per l’industria delle bevande, con una differenza fra i due settori di quasi dieci punti e un andamento divergente se si confrontano i valori con la media dell’industria mani- fatturiera (33,9%). Merita una considerazione l’andamento dei gruppi all’in- terno dei due macrosettori. In entrambi i casi, soprattut- to in termini numerici e in particolare per l’industria ali- mentare, si rafforza la loro presenza, ma con un sensibile ridimensionamento per le imprese che appartengono a gruppi. Un dato che riflette non tanto il dimagrimento dei gruppi maggiori, che pure c’è stato, soprattutto nel caso delle grandi imprese a capitale estero – le quali hanno razionalizzato non poco negli ultimi anni il portafoglio di brand – quanto la formazione di nuovi gruppi come esito di strategie di diversificazione o di crescita esterna per- seguite da imprese a capitale italiano di minori dimen- sioni. Nell’industria alimentare, le imprese appartenenti a gruppi nel 2015 hanno rappresentato il 4,8% del tota- le delle imprese (erano il 3,0% nel 2005) occupando ol- tre un terzo degli addetti del settore (il 34,3% nel 2015 contro il 31,1% del 2005) e con una dimensione media di 52,4 addetti (68,1 addetti dieci anni prima), oltre set- te volte la taglia media delle imprese alimentari italiane. L’effetto moltiplicatore appare meno accentuato nel caso dell’industria delle bevande, con dimensioni medie delle imprese che appartengono a gruppi pari a 42,4 addetti (in deciso calo rispetto ai 59 addetti del 2005). Tuttavia, la presenza dei gruppi in termini di imprese e di addetti »

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