Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2018

CIVILTÀ DEL LAVORO IV • V - 2018 58 DOSSIER nel corso dei venti anni osservati la vocazione alimentare del Paese si sia fortemente consolidata. A ben guardare, proprio a partire dagli inizi della “Grande Contrazione”, la quota delle esportazioni alimentari sulle esportazioni dell’industria manifatturiera ha accelerato il suo processo di crescita, passando dal 5,5% del 2007 al 7,7% del 2017. Per comprendere a fondo l’evoluzione delle imprese ita- liane nei mercati internazionali abbiamo posto a confronto le medie di due trienni: gli ultimi tre anni (2015-2017) e la fase immediatamente successiva alla crisi (2008-2010). La destinazione geografica privilegiata delle esportazio- ni alimentari e di bevande italiane rimane l’Europa, an- che se cresce in modo significativo il grado di diversifi- cazione: il 70,4% in media nel triennio 2015-2017 (era il 75,3% in media nel triennio 2008-2010), a fronte del 14,2% in America settentrionale (in salita dal 12,3% del 2008-2010) e del 9,8% in Asia (in crescita anch’essa dal 6,9%), dove nonostante l’accelerazione degli ultimi anni il divario dai principali concorrenti internazionali permane ampio. E ancora, possiamo osservare come la quota as- sorbita dai Brics sia ancora poco significativa, nonostante l’aumento fra i due archi temporali messi sotto la lente (dal 3,0% al 3,5%), a dimostrazione che i margini di cre- scita nei mercati emergenti per le imprese italiani sono ancora consistenti. È calata invece la quota di export ver- so i paesi europei extra UE-28: dal 7,9% al 7,3%. Senza dubbio, è motivo di conforto riscontrare come l’in- dustria alimentare italiana abbia saputo conquistare spazi sempre più ampi nei mercati internazionali; ancor più in- coraggiante è riconoscere – considerando come solo da- gli ultimi dieci anni, sollecitate o costrette dalla crisi, le imprese si siano spinte con maggior decisione verso l’e- stero – le opportunità di crescita che ancora ci sono, so- prattutto per l’innegabile reputazione di cui l’Italian food gode. Secondo le stime di Federalimentare, nel mondo ogni anno 1,2 miliardi di persone acquistano un prodot- to agroalimentare italiano e 750 milioni sono consuma- tori fidelizzati. L’aumento del valore dell’export nel giro degli ultimi die- ci anni, come detto, ha seguito un ritmo più che doppio rispetto alla media dell’industria manifatturiera. Tuttavia, è bene ricordare che la quota di esportazioni sul fatturato dell’industria alimentare italiana, stimata nel 2017 attor- no al 24%, è ancora inferiore ai principali concorrenti eu- ropei (in Germania, la quota di export sul fatturato delle imprese alimentari è il 33%, in Francia il 26%). Tale ritar- do sconta non tanto i vincoli determinati dalla presenza di dazi e barriere doganali – la quota maggioritaria delle esportazioni italiane di prodotti alimentari e di bevande è assorbita dai Paesi dell’Unione europea (oltre il 63% di media nel triennio 2015-2017) – quanto il gap dimensio- nale, con le inevitabili e comprensibili difficoltà di picco- le e piccolissime imprese ad esplorare e agire nei mer- cati internazionali. Intanto però, a guardare i dati di Istat-Ice sul commercio estero e le attività internazionali delle imprese (Istat-Ice, 2018), gli operatori all’esportazione in Italia sono cresciu- ti dai 14.075 del 2008 ai 19.840 del 2017, segnando un leggero aumento del valore medio delle esportazioni (da 1,482 milioni di euro del 2008 a 1,675 del 2017). Misu- rando la propensione all’esportazione delle imprese che esportano (è il rapporto tra fatturato estero nella vendita di prodotti e fatturato complessivo) il valore raggiunto nel 2016 è pari al 22,8%, di gran lunga inferiore alla media dell’industria manifatturiera (41,8%) e di molti dei prin- cipali settori industriali italiani (per esempio la propensio- ne all’esportazione è superiore al 50% per l’abbigliamento e le pelli). Ma a colpire è soprattutto il dato relativo al- la maggiore capacità delle imprese esportatrici di creare valore: nell’industria alimentare e delle bevande si regi- strano i maggiori differenziali di valore aggiunto per ad- detto rispetto alle imprese che non esportano: ben 217,5 mila euro di differenza contro i 127,3 mila euro in media dell’industria manifatturiera. IL RIPOSIZIONAMENTO STRATEGICO Fra il 2008 e il 2016, i distretti agro-alimentari hanno se- gnato le performance più elevate in termini di fatturato, cresciuto a prezzi correnti e per valori mediani del 25,7%, di gran lunga superiori ai dati sia di distretti di altre filie- re (il fatturato del sistema moda è cresciuto dell’11,2%,

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