Civiltà del Lavoro, n. 2/2019

29 Civiltà del Lavoro maggio 2019 al Salone del Libro a Parigi, nel 2022 andremo in Qatar, nel 2023 saremo alla Buchmesse di Francoforte. Stiamo par- lando di poca roba, si tratta di qualche decina di milioni di euro. Ma se non ci mettiamo tutta la determinazione del caso, l’industria culturale non la si salva. Potrei fare lo stesso esempio per lo spettacolo, per l’opera, per il cinema, per l’audiovisivo, per i format televisivi, per la musica. Abbiamo un vasto ambito di industrie culturali che possono mettersi in gioco. Questo è per quanto riguarda l’industria culturale, ma in che modo la cultura in quanto universo di conoscen- ze conoscibili può generare il presupposto perché si implementi lo sviluppo di un paese? E quindi la relazio- ne che si stabilisce, come recita il titolo di questo con- vegno, tra l’investimento in conoscenza e la capacità di creare le condizioni perché ci sia maggiore competitivi- tà, non solo della singola impresa ma del sistema Paese? Secondo me ci sono due livelli. Il primo è quello di patri- monio culturale inteso il più estesamente possibile. Sono convinto che il successo di alcune delle nostre industrie, ti- picamente quelle che si occupano di arti applicate, quindi moda, design, arredamento, accessori e così via, sia dovu- to anche al fatto che abbiamo una produzione molto ric- ca e creativa, molto innovativa e soprattutto molto veloce nell’adattarsi, la quale affonda le proprie radici all’interno del nostro patrimonio culturale. L’esempio che mi viene in mente è Dolce & Gabbana. La loro estetica parte dal patri- monio culturale siciliano, il più tradizionale possibile, lo ela- bora e poi realizzano il giro di affari che sappiamo. Questo è un qualcosa che ci contraddistingue perché gli stessi siste- mi industriali negli altri paesi non hanno questa originalità. Nel Nord Europa hanno la comodità e il legno, in Francia hanno un concetto del lusso e dell’esclusività. Questo è qual- cosa che ci contraddistingue ed è la ragione per cui il tene- re il giusto rapporto tra il mondo dell’arte, della cultura e il mondo dell’industria a questo livello, penso ci possa servire. Il secondo aspetto lo possiamo chiamare formazione pro- fessionale, se lo vediamo dal lato scuola, oppure cultura tec- nica se lo vediamo dal punto di vista culturale. La formazione professionale è un po’ una cenerentola e a mio avviso è il nostro principale punto debole, se guardia- mo l’intero sistema industriale. Qual è il problema? Confindustria Moda afferma che nei prossimi due anni ci sarà un gap di 45mila persone che an- dranno in pensione e non saranno sostituite. Classicamente, nel nostro modo di lavorare, parlo soprattutto delle azien- de più orientate alla creatività, all’artigianato di un certo livello. Il meccanismo di trasferimento delle competenze era legato all’affiancamento: prendevo un giovane operaio e lo mettevo di fianco a quello che era lì da vent’anni, que- sto era il modello. Oggi non è più così semplice perché c’è un divario genera- zionale per tutta una serie di ragioni. La prima è che banal- mente mancano i giovani; la seconda è perché c’è un tema di contemporaneità, di aggiornamento tecnologico, non possiamo far finta che non ci sia. Rispetto ad una volta è più importante mandare i nostri giovani a scuola. Il problema però è che non abbiamo i giovani. Addirittura, se adesso investissimo nelle scuole professionali, rischierem- mo di non avere abbastanza studenti che vogliono andarci. Prima si parlava di rivoluzione culturale. Per me questa è la principale rivoluzione culturale. Le aziende di Confindu- stria Moda sapete cosa stanno pensando? Di delocalizzare le scuole, dato che non trovano abbastanza giovani in Ita- lia, vanno in Romania, aprono lì dove trovano i giovani che vogliono fare questo percorso professionale per poi por- tarli qui. Perché questo? Facciamo un’autocritica seria. Per anni noi abbiamo fatto la pubblicità contraria alla forma- zione professionale, abbiamo raccontato che era una scuo- la dove andavano i meno dotati, quelli che avevano meno chance. Se la famiglia raccontava cosa facesse il proprio fi- glio, doveva dire che studiava da avvocato o altro. Oggi il figlio che fa studi classici magari è a zero lire e fa non so da quanti anni il tirocinio, mentre un giovane che fa un per- corso di tipo professionale nel giro di due anni prende uno stipendio netto sui 3.500 euro. Matera, dipinto medievale nella chiesa di San Pietro Caveoso PRIMO PIANO

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