Civiltà del Lavoro, n. 2/2019
36 Civiltà del Lavoro maggio 2019 PRIMO PIANO di vista imprenditoriale. Il tema della cultura come un asset competitivo sul quale fare leva ci appartiene, anche perché noi siamo convinti che il patrimonio di cui dispo- niamo – che non abbiamo fatto noi, ma i nostri avi – rap- presenti al tempo stesso una grande responsabilità, lo dobbiamo saper tutelare e proteggere. È una grandissi- ma opportunità perché è da lì che possiamo trarre nuo- va linfa, nuovo beneficio per continuare a essere un siste- ma che innova e compete sul bello, un qualcosa che non si compra e non si studia, fa parte della nostra cultura e dei nostri geni. Il bello è rappresentato dalla stratificazione che abbiamo alle nostre spalle, ma che naturalmente non può essere un patrimonio finito, noi stessi abbiamo la responsabili- tà di continuare ad investire e creare altro patrimonio. Ciascuno di noi quando entra in azienda dice: dove vo- glio portarla? Dove vogliamo portare questo Paese? Lo vogliamo portare ai vertici della competizione mondiale, sul bello, sulla qualità, sull’innovazione, sull’intelligenza, sul- la capacità di creare un sistema che, dal punto di vista so- ciale e civile, sia all’altezza di quello che la nostra storia ha rappresentato per l’umanità. Lo possiamo fare? Io penso di sì, tutto sommato siamo un Paese piccolo, invidiato, tut- ti vorrebbero mangiare italiano, vorrebbero trascorrere le proprie vacanze in Italia, sposarsi in Italia, ritirarsi in Italia, vestire italiano, guidare le automobili italiane. Tutti ci invidiano, ma siamo al tempo stesso un Paese che da decenni non investe più su se stesso. È in una condizio- ne di abbandono ambientale e di pericolosità dal punto di vista idrogeologico e le città devono essere assolutamen- te riqualificate e bonificate. Tutto questo è possibile farlo mettendo in moto un cir- cuito virtuoso, come dimostra Matera. Nei nostri libri di scuola era ricordata come il segno del degrado del Paese, oggi rappresenta invece un esempio positivo di come una riqualificazione, pur difficile e complessa, possa invertire il senso di marcia. Sicuramente possiamo farcela, però dobbiamo intenderci su cosa voglia dire competere. Per noi imprenditori que- sto è molto semplice: noi nasciamo con l’angoscia di fallire, sappiamo che “competo ergo sum”, esisto in quanto sono capace di competere. Se non sono capace di competere sono destinato a morire. Oggi la competizione è molto più violenta, molto più dura. Non ci sono più nicchie, cespugli, piccoli aggrovigliati dietro i quali nascondersi, la competi- zione è assoluta. Da decenni molti di noi contestano la logica del cespuglio, del “piccolo è bello”, della capacità italiana di fare queste cose, perché si sono resi conto che la dimensione e la di- rezione verso la quale andiamo è esattamente quella che ho accennato prima. Per cui anche il linguaggio con il qua- le oggi parliamo, il dibattito sulla Cina di queste ultime set- timane registrano un’assoluta distonia rispetto a quella che è la nuova dimensione della competizione. Qualche decen- nio fa si diceva: competono i territori, competono le ma- croregioni, i paesi. Non è più vero: competono sicuramen- te i territori, le regioni e i paesi, ma soprattutto competono i continenti. Oggi la dimensione minima della competizio- ne è continentale. Quando si approccia un discorso come quello sulla Cina e si pensa che, così come il continente americano dice “Ameri- ca First”, anche noi possiamo dire “Italia First”, abbiamo un calo secco di credibilità e di reputazione. Anzitutto all’in- terno del Paese e poi agli occhi del mondo. Il bello è rappresentato dalla stratificazione che abbiamo alle nostre spalle, ma abbiamo la responsabilità di continuare a investire e creare altro patrimonio
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