Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2019
26 Civiltà del Lavoro novembre 2019 SPECIALE luogo, l’Unione si è portata dietro il peso delle tradi- zioni e delle istituzioni della Francia, ovvero “del Paese la cui cultura politica è da sempre totalmente incompatibile con il federalismo”. A questo va aggiunto il fatto che non è mai stata affron- tata in maniera compiuta la questione dei confini. “Come si fa a ipotizzare un’unificazione politica, anche se proiet- tata in un lontano futuro, se non è possibile stabilire dove cadono i confini?”, si domanda Panebianco, che cita il tor- mentato rapporto con la Turchia come uno dei fattori più destabilizzanti degli ultimi anni. Fra i limiti va sicuramente ricordato anche un altro elemen- to, la cosiddetta “policy without politics”, ovvero “la capa- cità di creare politiche senza però la capacità di fare politi- ca e di pensare politicamente l’Europa”. Questo ha fatto sì che l’iniziale processo di aggregazione fosse orientato prin- cipalmente all’integrazione economica nell’erronea con- vinzione che prima o poi questa si sarebbe tradotta auto- maticamente in un’unificazione politica. Ma basta tornare indietro con la memoria al 2005 per ritrovare il primo se- gno di cedimento. In quell’anno, infatti, i referendum sulla Costituzione europea indetti in Francia e in Olanda venne- ro bocciati e il processo si arenò definitivamente. Panebianco individua errori di metodo nella modalità che venne scelta per consultare i cittadini: in pratica si diede ai singoli paesi la facoltà di optare per l’approvazione in Par- lamento oppure per il referendum popolare. “Ma se di Costituzione si tratta – afferma Panebianco – non si possono prendere in giro i cittadini. Si deve dire ‘quel giorno, in tutta Europa, ci sarà un referendum confermati- vo della nuova Costituzione’. Altrimenti così è un trattato e come tale valgono le regole costituzionali di ognuno de- gli Stati per farlo approvare”. Archiviata questa fase, gli anni successivi hanno visto proseguire il processo di integrazio- ne. Quando, però, quest’ultima si è fatta troppo stretta e ha richiesto anche la presenza di un indirizzo politico, i fautori dell’Europa sono stati timidi e balbettanti, sottolinea il do- cente, nel contrapporsi a chi nel frattempo aveva utilizzato i malumori crescenti in chiave antieuropea. Cosa fare oggi, dunque? La situazione appare complessa e Panebianco si domanda quanto a lungo potrà reggere una moneta senza governo. Certamente, un errore da non com- mettere è ostinarsi ad alimentare la presunta contrapposi- zione fra Stati nazionali ed Europa. “La storia è dalla parte dei primi – commenta – e noi non abbiamo bisogno di un’Europa Stato, bensì di un’integra- zione che valorizzi gli Stati”. L’auspicio è che la nuova Commissione europea getti le basi per un’inversione di tendenza, “recuperando una parte del poteri e del prestigio che aveva un tempo e che da qualche anno ha perduto a vantaggio del Consiglio europeo, ovve- ro dei governi nazionali”. Un nuovo equilibrio consentireb- be infatti di bloccare il processo disgregativo in atto, nel- la consapevolezza che esistono certamente aspetti e temi da lasciare ad una competizione regolata, ma che al tem- po stesso ne esistono altri sui quali gli europei devono col- laborare per il reciproco vantaggio. Stiamo forse parlando di “bene comune”? Sì, e Panebianco usa di proposito un’e- spressione desueta, come riconosce lui stesso. Ma la po- sta in gioco è troppo alta, parliamo dell’unità possibile, dalla quale dipenderanno “il mantenimento della pace, la prospe- rità economica e la libertà degli europei”. Sintesi della relazione di Angelo Panebianco Già professore ordinario di Scienza politica, Università di Bologna Angelo Panebianco La crisi che vive l’Unione europea mette a nudo i limiti di un’integrazione soltanto economica, così come è stata perseguita fino ad oggi. Adesso occorre spegnere la contrapposizione con gli Stati nazionali e tornare a parlare di “bene comune”
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