Civiltà del Lavoro, n. 2/2020
23 Civiltà del Lavoro aprile • maggio 2020 grandi filiere produttive internazionali, si potrebbero trova- re sul mercato politico gruppi “sovranisti” in grado di soste- nere interessi speciali di natura localistica. La paura dell’e- pidemia potrebbe rafforzare le motivazioni così orientate. Oppure, può essere al contrario che i governi del mondo trovino nella necessità nuove capacità istituzionali e, armati di fantasia transnazionale, riescano a superare questi rischi. Non c’è dubbio che, in casi come questo della pandemia da coronavirus, al cospetto dello scenario tragico che ab- biamo sotto gli occhi ci siano forti attese di rinnovamen- to. “Niente sarà come prima” è una credenza diffusa quan- to spesso vaga. È curioso notare poi come – sotto l’accordo su di una pre- messa di rinnovamento generico – si celino spesso opzio- ni opposte e in reciproca tensione. Probabilmente tutti chiedono dal nuovo che verrà maggio- re solidarietà e più attenzione all’ambiente. Ma le strategie per ottenere tutto ciò sono radicalmente diverse. Finora, lo si è visto relativamente poco perché eravamo tutti presi dalla necessità di limitare i danni e se possibile sopprimere il virus. Ma, ora che la prospettiva di una Grande Depressione si fa meno improbabile data anche l’evidenza epidemiologi- ca (il male potrebbe durare a lungo), le strade cominciano a dipartirsi. Ce ne sono perlomeno due assai diverse tra loro. La prima è di natura sostanzialmente reazionaria e anti-il- luminista. Sullo sfondo riprende in parte idee di Rousseau e Freud, me- scolandole a una lettura mathusiana di Marx. Il tutto serve prima facie a fornire le armi per una critica radicale del pro- gresso. Di cui Covid-19 non avrebbe fatto altro che scoprire le magagne finora celate. Nella sua forma estrema, che può andare da un critico radicale di sinistra come Jean Baudril- lard all’estrema destra di Alain de Benoist , questa opzione denuncia i falsi miti, i simulacra, della mistura tra capitali- smo e democrazia tanto amata dai liberal. Sul banco degli imputati finisce qui l’intero processo di glo- balizzazione imperniato come è stato – secondo questi cri- tici – da una visione progressista egemonica. Se vogliamo, si predica in questo modo l’opposto di quel- la diffusione universalistica del liberalismo che Francis Fu- kuyama aveva famosamente visto alle porte dopo il 1989. In fondo, proprio la globalizzazione in questione era cre- sciuta sui miti del produci più che puoi, circola e fai circo- lare, assorbi la natura e includi la diversità. Tutti imperativi questi che, in senso reale o metaforico, c’entrano con le cause della pandemia e sono quindi sot- to accusa. Proprio Baudrillard, che abbiamo appena citato, nel suo libro “Lo scambio simbolico e la morte” (Feltrinel- li), suggerisce che all’ordine moderno della “produzione” e a quello contemporaneo della “simulazione” (basato sui codici informatici) si andava sostituendo un ordine post- moderno affatto diverso. In quest’ultima fase, la viralità aveva un peso e un significa- to decisivi. L’ordine virale così concepito incorpora un va- lore complesso, immaginabile come un frattale, che si in- filtra in tutti i gangli del sociale. Che, alla luce dell’attuale pandemia, la viralità sia meno in auge è poi una conclusio- ne nostra che è difficile non condividere. Su questa base, la critica reazionaria del progresso ha buon gioco nel decostruire i fondamenti culturali del modello di società che ha portato alle crisi del 2007-2008 e del 2020. Meno facile è il gioco quando si passa ai rimedi possibili. Questi consisterebbero in un rinnovato nazionalismo, nel ritorno della gerarchia, in una relativa autarchia economi- ca, nel localismo, nella chiusura agli scambi, nell’impedire le migrazioni. Difficile non vedere come misure del genere, al di là dell’impoverimento culturale di cui sarebbero fon- te, darebbero origine a un immiserimento economico pro- gressivo del pianeta. Concettualmente parlando, sembra naturale pensare che avesse ragione David Held quando nel suo “Gridlock” so- stenne che i nodi della globalizzazione hanno a che fare con problemi non risolti a livello di coordinazione istitu- zionale della globalizzazione stessa. Il che in sostanza vuol dire che per risolvere problemi finanziari, ambientali e di epidemie ci vuole più globalizzazione e non meno. La spin- ta iniziale, nel caso di una pandemia come quella attuale, può venire da un dovere naturale di giustizia dovuto all’ur- genza. Ma dopo va costruito un reticolo istituzionale all’al- tezza del problema, che è globale non locale. Il secondo percorso di dopo-pandemia è quello che auspichiamo La crisi mette sul banco degli imputati la globalizzazione per come fino ad oggi l’abbiamo praticata. Senza una risposta basata sull’etica pubblica e sulla sostenibilità, potrebbero tornare in auge movimenti reazionari e autarchici. Il rischio è un ulteriore impoverimento economico e culturale PRIMO PIANO
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