Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2020
19 Civiltà del Lavoro ottobre • novembre 2020 pagare le tasse. Va perciò fatta una grande operazione di ve- rità e reso palese che lo Stato non può tutto, non possiamo illudere le persone dicendo che tutti saranno salvati e tutti saranno soccorsi, che si salverà ogni lavoro e che si salve- rà ogni impresa. Non possiamo avallare una idea di società parassitaria, abbiamo bisogno di liberare energie positive. E invece un malinteso statalismo rischia di ingabbiare proprio queste energie. Avverte il pericolo di un ritor- no dei “nemici della società aperta”? Non credo ci sia questo rischio, non penso che lo statalismo possa tornare ora nelle forme in cui lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Quel che è evidente è che siamo in un Pae- se in cui c’è una debole cultura del mercato e della concor- renza. Il fatto che le corporazioni, impresa non esclusa, ab- biano continuato ad appoggiarsi sullo Stato per risolvere questioni proprie, private, la dice lunga. Gli stessi casi dell’Il- va, di Atlantia o di Alitalia stanno lì a dimostrare che agli er- rori del pubblico non sono stati da meno quelli del privato. Io penso che sia arrivato il momento, da parte del ceto pro- duttivo e di chi lo rappresenta, di riconoscere degli errori; in questo modo si offrono anche meno frecce all’arco agli ideologi che credono che il mercato sia una iattura. Quali autocritiche dovrebbe cominciare a fare il mon- do dell’impresa? Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, non si può più ragionare per corporazioni. Io credo, per esempio, che non sia stata una bella scelta quella di non aver fatto paga- re l’Irap in giugno anche alle imprese che non hanno avuto perdite di fatturato, visto che l’Irap, che è una disprezzabile imposta, serve a sostenere il Servizio Sanitario Nazionale. Sarebbe stato meglio dire “chi può pagare la paghi”, per- ché è una sorta di responsabilità civile, è una forma di citta- dinanza consapevole. Ecco, mi auguro che anche da parte dell’impresa ci sia una battaglia sul fatto che lo Stato non può essere imprenditore di ultima istanza. Serve coraggio. L’Italia spende in ricerca e innovazione soltanto I’1,4% del Pil, quattordicesima in Europa alla pari di Spagna e Grecia. Germania, Danimarca e Austria, economie in costante crescita, spendono in ricerca più del doppio, il 3% del Pil. È un dato sufficiente per spiegare molti dei ritardi del Paese? Lo è. Ma anche in questo caso va detto che è sì lo Stato che deve svolgere un ruolo di primo piano ma a essere chiamati in causa sono anche i privati. Non sono pochi, per esempio, i crediti di imposta per la ricerca utilizzati poi dalle impre- se per acquistare macchinari. Anche qui serve un convin- cimento culturale, e si tratta di un lavoro tutto da fare. In questi mesi, per esempio, si è discusso soprattutto di dove mettere il capitale umano, ma non di come farlo cresce- re. Abbiamo discusso molto di banchi a rotelle, abbiamo investito molto in legno e in acciaio ma poco in program- mi, poco in profili dei docenti e in crescita di quella che è la cultura del merito. Allora io penso che sarebbe interessante da parte della classe dirigente privata, da parte di coloro che hanno una Chi produce ricchezza ha il dovere di rendere chiaro a tutti che non esistono pasti gratis, che non esistono indebitamenti che non si debbano restituire. Va fatta una grande operazione di verità e reso palese che lo Stato non può tutto Nel giugno 2021 la Banca centrale europea possiederà circa un terzo del debito pubblico italiano, ma questo – avverte Ferruccio de Bortoli – non deve indurci a pensare che il problema non esista, perché il debito va ripagato e bisogna capire da subito come PRIMO PIANO
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