Civiltà del Lavoro, n. 1/2021
60 Civiltà del Lavoro gennaio • febbraio 2021 LIBRI che c’ero di mettergliela a posto per la gara. Per trasparen- za e onestà, chiesi il permesso a Magni, non avrei mosso un dito senza il suo permesso. Magni me lo concesse, e così eseguii. Coppi mi ringraziò, fece per pagarmi, gli dissi di no, Coppi insistette, mi allungò mille lire. Quella banconota da mille lire la tenni nel portafogli per anni: ero meccanico di Magni, ma con Coppi nel cuore. […] TENACIA E INNOVAZIONE Era il 1956. Mi venne l’idea di piegare i tubi delle forcelle a freddo. Avevo capito che se si facevano scaldare le forcelle, le molecole dei tubi brucia- vano e perdevano in elasticità. Invece, piegando le forcel- le a freddo, facendo leva su due pezzi di legno sistemati su un tavolo da lavoro, non perdevano in elasticità. Ma quanti tubi battuti, quanti tubi buttati. 25 OTTOBRE 1972, IL RECORD DELL’ORA Per aiutarci a capire il tempo, la sua lentezza e la sua velocità, la sua dura- ta e la sua distanza, la sua profondità e il suo spessore, per- ché il tempo è fatto anche di spazio e storia, c’è il record dell’ora. La dimostrazione è semplice: il record dell’ora non dura un’ora, ma una vita. A Merckx, per decidere di tenta- re il record dell’ora, non ci volle un’ora, gli bastò un attimo. Fine 1972, invece di scendere dalla bici, Eddy ci risalì, invece di andare in vacanza, Eddy tornò al lavoro. Un’ora, un’ora sola, la prima e ultima ora. La bici, ovviamente, orgogliosa- mente, avrei dovuto farla io. Una bici leggera, la più legge- ra che potessi costruire. Limando, forando, snellendo, una sorta di cura dimagrante, di dieta meccanica, e così riuscì a creare una bici di cinque chili e settecentocinquanta gram- mi. Per costruire la bici dell’ora ci misi duecento ore. Ma ne valeva la pena: considero quella bici come un’opera d’arte e d’artigianato, tanto da essere esposta anche al MoMa – il Museum of Modern Art – di New York. E andò a ruba. Dav- vero. Conclusa la mostra, la bici fu restituita senza pedali. L’ETÀ DELL’ACCIAIO L’acciaio, cioè il ferro con una per- centuale di carbonio inferiore al due per cento circa (ol- tre, le proprietà si modificano: ed è la ghisa), io lo maggio- ravo. La bicicletta di Saronni in acciaio pesava nove chili e duecento grammi. Ne facevo di esperimenti, che mi dava- no esperienza, per le corse. Ma ci volevano quattrini per la ricerca. La svolta avvenne con Enzo Ferrari, e gli altri, tutti gli altri, mi vennero dietro, in scia, a ruota. L’INCONTRO CON ENZO FERRARI E L’INIZIO DELL’E- TÀ DEL CARBONIO Era il 1986. Combinammo l’appunta- mento alla Bruciata, una trattoria per camionisti, dunque un luogo privilegiato dove si mangiava benissimo, a Modena. Quel pranzo mi cambiò la vita. La mia vita professionale. A Ferrari, con molto timore reverenziale, spiegai che volevo utilizzare per le biciclette i materiali della Formula 1. Così lui “A proposito di sogni: anch’io sogno. Sogno Magni che alza il braccio per segnalarmi una foratura, sogno Merckx che forzando sui pedali incrina una pedivella, sogno Saronni cui salta la catena. Più che sogni, sono incubi, paure. E così, anche di notte, dormendo, vivo la stessa agitazione, la stessa fretta, la stessa urgenza che si respirano in corsa” “Pregavo perché Merckx partisse facendo leva sulla gamba destra, meno potente della sinistra. Pregavo perché ogni vite di giuntura facesse il suo dovere. Pregavo perché non si verificasse alcuna foratura ” Enzo Ferrari e Ernesto Colnago
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