53 Civiltà del Lavoro gennaio • febbraio 2023 LIBRI le avvisaglie che qualcosa di anomalo stesse accadendo ci sono state forti e chiare eppure sono state sistematicamente ignorate. Due anni dopo il Telecommunication Act, nel 1998 l’Amministrazione Usa ha dato vita ad altri due provvedimenti controversi: l’Internet Tax Freedom Act e il Digital Millennium Copyright Act. Grazie a queste due leggi, in nome del potenziale innovativo introdotto dai nuovi servizi collegati alla rete, le imprese che operano sul web vengono esentate dal prelievo fiscale e, in sostanza, dall’onere di garantire ai propri utenti la tutela della privacy. Non sarebbe stato così difficile immaginare che si stavano ponendo le premesse per la costituzioni di monopoli e la nascita di una nuova genia di “robber barons”. Eppure persino la Corte Suprema arriva a dare il suo placet con una storica sentenza del 2004 a firma di Antonin Scalia, nella quale si certifica che “al fine di salvaguardare l’incentivo a produrre innovazione, il possesso di un potere monopolistico non sarà considerato illegale a meno che non sia accompagnato da elementi di condotta anticompetitività”. Musica per le orecchie delle big tech, verdetto sconcertante per le piccole startup, osservano Bernabè e Gaggi. Peter Thiel, fondatore di PayPal e tra le figure più rappresentative dei “baroni digitali”, sintetizzerà meglio di altri il nuovo corso con un articolo pubblicato sul Wall Street Journal nel 2014 dal titolo “Competition is for Losers”, la competizione è per perdenti. A che serve la concorrenza quando c’è una o poche imprese che fanno innovazione a così alta intensità da garantire prezzi bassi per i consumatori e nuove soluzioni per il benessere di tutti? Feltrinelli, per mettere in evidenza non solo l’analoga potenza trasformatrice di bit ed elettroni ma, prima ancora, per denunciare l’enorme differenza nel modo in cui queste due rivoluzioni hanno interagito con la società, l’economia, la dimensione familiare ed esistenziale di ciascuno di noi. “Mentre a valle dei settori che hanno beneficiato dell’elettricità – scrivono gli autori – sono nate nuove industrie importanti, come quella degli elettrodomestici, la stessa industria elettronica, l’industria del trasporto elettrico e tante altre, a valle dello smartphone e del tablet ci sono in prevalenza servizi che richiedono lo sviluppo di linee di codice”. Le tecnologie digitali migliorano in modo esponenziale servizi già esistenti, ne abbattono i costi, ma non creano nuove filiere produttive. Laddove l’elettricità ha fatto da detonatore per nuovi comparti industriali, le tecnologie dell’informazione hanno finito per vampirizzarli. Musica, editoria, giochi, commercio, oggi si consuma tutto nel perimetro di un iPhone. Il volume è tutt’altro che animato da qualche forma di luddismo 4.0, il che sarebbe a dir poco paradossale considerato il profilo degli autori: Bernabè, presidente di Acciaierie d’Italia, ha guidato per decenni colossi dell’innovazione del settore energetico e delle telecomunicazioni prima come amministratore delegato di Eni e poi Telecom, mentre Gaggi è editorialista del Corriere della Sera, di cui è stato vicedirettore, tra i più attenti lettori della società americana proprio grazie alla capacità di intrepretarne le evoluzioni attraverso la lente delle trasformazioni tecnologiche. “Profeti, oligarchi e spie” è, più semplicemente, un saggio disincantato sull’economia che ha generato la società dell’informazione. Tutti ne conosciamo i pregi e il valore, in pochi ci siamo interrogati sulle nuove geografie tracciate dall’economia dell’algoritmo. La tesi degli autori è che la digitalizzazione sfalda silenziosamente la democrazia e contribuisce alla scomparsa del ceto medio. “Non ci sono interessi di classe da difendere ma tendenze da cavalcare che spesso hanno un’origine nel senso di incertezza e di spaesamento che vive la società. E mentre i lavoratori sono diventati più deboli, le grandi concentrazioni economiche favorite dalla tecnologia hanno dato a pochi grandissimi imprenditori e finanzieri un potere straordinario che si è tradotto in una altrettanto straordinaria capacità di influenza politica”. È questo il sogno del nuovo capitalismo? Bisogna assumere come inevitabile il populismo digitale come passo successivo della democrazia liberale? Sono domande meno retoriche di quanto sembri, perché Franco Bernabè
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