Civiltà del Lavoro, n. 2/2024

49 FOCUS Civiltà del Lavoro | marzo • aprile 2024 porranno con altrettanto senso del dovere ai nuovi adempimenti che gli vengono richiesti. Il risultato complessivo è che i primi continuano a comportarsi come prima, mentre i secondi hanno meno tempo per fare quello che hanno sempre fatto e che devono fare, e cioè studiare, pensare, scrivere, insegnare. Anche se non è esattamente un teorema, ci pare giusto ricordare che, sovente, normare un ambito della società civile partendo dall’assunto che coloro che ne fanno parte siano dei malintenzionati ha come prevedibile risultato quello di punire o quantomeno penalizzare sistematicamente solo coloro che al suo interno non lo sono. PER CONCLUDERE Abbiamo detto all’inizio che il rinnovato e benvenuto interesse per l’Università prende spesso lo spunto da critiche a questo o quell’aspetto del sistema accademico. Anche perciò, per dirla con Montale, dobbiamo partire da ciò che non siamo, da ciò che non vogliamo. Non vogliamo un’Università troppo ideologica che limiti la libertà di espressione e che non consideri il merito accademico e scientifico come il punto di partenza per qualsiasi visione della alta formazione. Non siamo pronti ad accettare una visione economicistica e puramente strumentale dell’Università, in cui lo studente è considerato solo ed esclusivamente cliente e futuro lavoratore. Nelle società contemporanee, le persone occupano più ruoli. Sono in primo luogo individui che portano con sé un bagaglio di esperienze, non ultime fra di esse, esperienze culturali. Sono poi cittadini che debbono partecipare alla vita politica del Paese. Sono certamente anche lavoratori che avranno bisogno di trovare una collocazione all’interno di un sistema produttivo. La formazione terziaria non deve rinunciare al tentativo di contribuire allo sviluppo delle capacità di ognuno di occupare questi ruoli in maniera consapevole. Lo sviluppo di una coscienza critica, in questo senso, non fa tanto riferimento a un contenuto quanto piuttosto a un metodo. La sfida non consiste nello scegliere quale “parte” delle persone si voglia coltivare all’interno delle università, ma nel far crescere in maniera bilanciata l’autonomia di individui che occupano ruoli diversi. Per ottenere questi scopi, è importante che la sfera pubblica stabilisca delle regole da rispettare. Tuttavia, queste regole pubbliche non devono trasformarsi in una gabbia iper-burocratica, che nasconda i problemi reali dell’Università, primo tra tutti quello di mantenere al centro del progetto istituzionale lo studio e la riflessione. Tenere assieme accountability pubblica e indipendenza delle università è certamente un compito complesso. Il tentativo – magari astratto ma non privo di significato – dovrebbe essere quello di spostare l’attenzione dalla ricerca dell’eccellenza a quella della decenza; di non incentivare la competizione, ma di evitare abusi e storture. Intendiamoci, questo non significa che le università non debbano premiare il merito accademico, o che i ricercatori che le popolano non debbano aspirare a fare il meglio possibile con la libertà che gli viene (o quantomeno dovrebbe essere) concessa. Significa invece che il ruolo dello Stato e delle sue regole non è quello di spiegare a chi studia e lavora nelle istituzioni di alta formazione quali siano i modi migliori di perseguire le virtù che dovrebbero caratterizzare le pratiche accademiche ma bensì quello di evitare che di questa libertà si faccia un uso improprio. Che cosa vuol dire questo in concreto? Innanzitutto, attenzionare chi scientificamente non produce nulla per lunghi periodi, chi rende l’esperienza formativa degli studenti sistematicamente inaccettabile, chi non partecipa mai agli oneri della gestione dell’istituzione. In tutti i casi, a ben vedere, c’è un aspetto in comune nelle due critiche da cui siamo partiti, aspetto che consiste nella volontà di non arrendersi a derive ideologiche e di non accontentarsi di un governo degli algoritmi amministrativi. Con la consapevolezza che l’oggetto principale dell’alta formazione consiste nel mettere il merito scientifico e la capacità culturale al centro del progetto generale. Il che ci porta non troppo lontano dagli ideali di chi, come von Humboldt, ha inventato il modello dell’Università che noi conosciamo. Un lascito che non va interpretato in termini di libertà in una torre di avorio (Freiheit und Einsamkeit), ma piuttosto come ragionevole equilibrio tra autonomia, cooperazione e rispetto di standard condivisi. La questione dell’equilibrio tra autonomia accademica, cambiamenti delle società civili, e controllo pubblico è insieme fondamentale e complessa. Non può essere risolta né nella prospettiva di un’autonomia spiritualistica della cultura né in quella di una sistematica invasione da parte di logiche provenienti da altre parti della società civile accompagnate da un disciplinamento burocratico-amministrativo da parte dello Stato. La questione dell’equilibrio tra autonomia accademica, cambiamenti delle società civili, e controllo pubblico è insieme fondamentale e complessa

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