Quaderni sulla sostenibilità

Incontri Quaderni sulla Sostenibilità 103 Come sapete non c’è più alcun dubbio nella comunità scientifica internazionale sulla re- sponsabilità dell’intervento umano nella modificazione del sistema climatico e nella mo- dificazione di tutti gli ecosistemi e della straordinaria biodiversità presente sul pianeta. Seguendo le analisi che sulla concentrazione di anidride carbonica nella composizione chi- mica dell’atmosfera abbiamo il dato attuale di oltre 420 ppm (parti per milione di volume) di presenza di CO 2 rispetto ai 280 dell’epoca preindustriale. Considerate che gli scienziati hanno indicato al mondo dei decisori politici che il livello che non dovrebbe essere supe- rato (il Planetary Boundary, il confine planetario da non superare per non alterare la dina- mica climatica a nostro sfavore è di 350 ppm. Noi, come vi ho detto, lo abbiamo già supe- rato in tempi molto brevi). Ritengo che il nodo centrale del concetto della sostenibilità, è di fatto quello proposto nel 1972 dal Club di Roma, uno straordinario Think Tank guidato da Aurelio Peccei, un italiano, insieme al grande Alexander King, scozzese, all’epoca direttore scientifico dell’OCSE, nel primo rapporto del Club commissionato al prestigioso MIT con il suo Systems Dynamics Group intitolato “I limiti alla crescita”. “Non si può perseguire una crescita materiale e quantitativa illimitata in un pianeta dai limiti bio-geofisici definiti”, questo è il nocciolo del- la sostenibilità. Perché , come accennavo, sostenibilità vuol dire un nuovo modo di stare al mondo, ed è inutile che vi dica che il modo fondamentale con cui oggi noi stiamo al mon- do non è una modalità che rispetta il fatto che noi siamo natura e che, senza una natura sana e vitale, l’umanità non può esistere, come ci dimostra chiaramente tutta la comuni- tà scientifica internazionale e come, tutti noi, ci rendiamo conto quotidianamente. Infatti, se respiriamo, beviamo e mangiamo è grazie a dei sistemi naturali sani e non distrutti o in- quinati, ma un modo economico e sociale che fa trionfare la crescita illimitata, materiale e quantitativa. È questo modo economico e sociale che va cambiato. Nel ’96 ho portato in Italia il primo volume sulla nozione di “impronta ecologica”, elabora- ta dagli amici Mathis Wackernagel e William Rees, che hanno individuato un metodo molto maieutico per far capire quanto ciascuno di noi potesse incidere sulle risorse naturali attra- verso una serie di elementi che compongono appunto la cosiddetta Ecological Footprint . Da lì è nato anche discorso dell’Earth Overshoot Day, vale a dire la bio-capacità che il mon- do ha a disposizione, cioè la capacità rigenerativa dei sistemi naturali, rispetto alla nostra Ecological Footprint, cioè l’uso che l’umanità fa delle risorse naturali ogni anno. L’Over- shoot Day annuale ci indica il numero di giorni dell’anno che la biocapacità terrestre riesce a provvedere all’impronta ecologica umana, dopo i quali accumuliamo un debito ecologi- co che si tramuta nella profonda debolezza dei nostri sistemi naturali che ci sostengono. Il calcolo del giorno definito come Earth Overshoot Day è dato proprio dal rapporto tra il calcolo della biocapacità del pianeta, ossia l’ammontare di tutte le risorse che la Terra è in grado di generare annualmente, e l’impronta ecologica dell’umanità, ossia la richiesta to- tale di risorse per l’intero anno. Teoricamente si dovrebbe raggiungere alla fine dell’anno e invece, con il passare degli anni, a partire dagli anni ’70, si arriva dell’Earth Overshoot Day già a più di metà anno. Nel 2022 sarà il 28 luglio. Per questo si dice che oggi consumiamo risorse naturali come se avessimo a disposizione 1,7 pianeti. C’è un importante organismo scientifico delle Nazioni Unite, l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), dedicato a fare il punto della situazione su come sia la situazione dello stato della natura sulla Terra. Se- condo l’IPBES , il 75% delle terre emerse sono state modificate visibilmente dall’intervento umano, il 66% degli oceani impattati in maniera significativa, oltre l’85% delle aree di zone umide scomparse, e il 90% delle zone terrestri potrebbero essere, con uno scenario BAU (Business As Usual), significativamente alterate entro il 2050.

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