Articolo pubblicato nella rivista n.3/2023 di Civiltà del Lavoro
Il mondo del lavoro è oggi sotto osservazione più che in passato. La trasformazione digitale, ma soprattutto il Covid-19, ha accelerato cambiamenti che erano già in atto seppure a velocità più contenuta. Ne abbiamo parlato con Stefano Cuzzilla, che guida la principale associazione del mondo del management, con circa 180mila fra dirigenti, quadri apicali e alte professionalità iscritti.
Presidente, la pandemia ha rappresentato uno spartiacque avviando di fatto la sperimentazione di nuove modalità di lavoro, che hanno riguardato anche il mondo delle imprese. A tre anni di distanza, quali sono i cambiamenti consolidati e quali quelli ancora in via di assestamento? Più che uno spartiacque lo definirei uno “tsunami”, che ha travolto la tradizionale concezione del lavoro. Questo effetto dirompente lo abbiamo visto certamente all’inizio, quando tutte le organizzazioni sono state costrette a cambiare il modo di lavorare a causa della pandemia. Credo sia ancora presto per dire se quel cambiamento repentino abbia sedimentato. Dopo tre anni alcune imprese hanno adottato nuovi modelli organizzativi, prediligono il lavoro agile, scelgono politiche aziendali più attente all’ambiente e al benessere dei collaboratori. Ma in altri contesti questo cambio di passo fa fatica a imporsi. Bisogna interrogarsi ancora sull’equilibrio possibile tra produttività e organizzazione del lavoro.
Lo smart working si è tradotto nella stragrande maggioranza dei casi nel lavorare da casa, contribuendo ad assottigliare i confini tra vita lavorativa e vita familiare. Con quali strumenti le aziende dovrebbero assicurare ai propri dipendenti un corretto bilanciamento delle due sfere? È finito il tempo dei compromessi al ribasso, delle famiglie sacrificate sull’altare del lavoro. Oggi la ricerca di un corretto work-life balance è indefettibile, è persino diventato un requisito per trattenere i migliori talenti.
L’Inps ci dice che, nel 2022, in Italia 2,2 milioni di persone si sono dimesse dal lavoro: un’emorragia che ha certamente molte cause, tra le quali spicca però l’impossibilità di una conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Un rebus esistenziale che scoraggia molti giovani anche rispetto alla possibilità di “metter su famiglia”, come si diceva una volta.
Il risultato è che ci troviamo in un Paese che ha un tasso di natalità in picchiata e che nel 2021 ha registrato meno di 400mila nascite. Le imprese devono fare la loro parte nel rispondere a questi segnali allarmanti, mettendo sul piatto strumenti di welfare aziendale ad alto impatto sociale. Per fare ciò, è però indispensabile un’ampia predisposizione all’ascolto dei lavoratori.
Nelle ultime considerazioni, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è tornato più volte sul problema della bassa produttività del lavoro, alla quale ha contribuito “la bassa efficienza dei processi produttivi”. Quali ostacoli incontrano le imprese, in particolare le Pmi, nel modificare i propri modelli organizzativi? Per avere un tessuto produttivo efficiente la ricetta è chiara: serve maggiore managerialità, perché solo un approccio fondato su competenze manageriali qualificate può portare a compimento gli ambiziosi obiettivi che il Paese ha di fronte. Mi riferisco a quella che viene chiamata “twin revolution”, vale a dire l’articolato processo di transizione, digitale e green, che nei prossimi anni, anche in forza delle missioni definite dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, cambierà profondamente il sistema industriale e le diverse articolazioni della Pubblica amministrazione. Il mercato del lavoro richiede un patrimonio di saperi sempre più ampio, fondato su conoscenze tecniche, ma anche su ottimali soft skills.
Dall’osservatorio di 4.Manager, l’associazione condivisa tra Federmanager e Confindustria, noi sappiamo che oltre il 76% delle imprese italiane ha difficoltà a trovare le competenze necessarie. Ecco, bisogna intervenire fortemente su un doppio livello: quello della formazione e quello dell’orientamento delle competenze, per far sì che si risolva un mismatch inaccettabile e dannoso.
Quali proposte o azioni portate avanti come Federmanager per contribuire all’aumento della produttività nelle imprese? La nostra federazione è in prima linea per offrire alle imprese manager di assoluta eccellenza, in grado di realizzare processi virtuosi di sviluppo aziendale. Da alcuni anni promuoviamo, ad esempio, un percorso di certificazione – BeManager – volto a qualificare e riqualificare le competenze di manager, anche inoccupati, che vogliano misurarsi con le sfide del futuro. BeManager offre la possibilità di certificarsi in uno dei cinque profili da noi definiti in base alle più attuali esigenze di mercato: innovation manager, manager di rete, manager per la sostenibilità, temporary manager, export manager e manager per l’internazionalizzazione.
Da questo percorso emergono figure professionali strutturate per intervenire come “agenti del cambiamento” nelle tante realtà che, a partire dalle Pmi, hanno bisogno di guardare alle nuove frontiere del digitale, dell’economia circolare, dell’export di qualità. Distanza generazionale e disparità di genere sono due fattori che possono rallentare il percorso di un’impresa verso una migliore organizzazione del lavoro. Come intervenire? Promuovendo politiche aziendali inclusive che consentano alle organizzazioni di trarre forza dalle diversità, generazionali e di genere. Per quanto riguarda i giovani, l’8% dei laureati scappa via ogni anno dall’Italia, al fine di cercare fuori un’adeguata affermazione professionale. E se parliamo di gender gap, i dati sono addirittura più incresciosi: in Italia una donna su due è inoccupata, tra i manager le donne sono appena il 28%. E pensare che, se riuscissimo a colmare l’attuale gap a tutti i livelli, avremmo una crescita del Pil del 12%. Misure come la certificazione della parità di genere aiuteranno sicuramente a cambiare rotta, ma dobbiamo tutti fare di più. Accogliamo quindi con favore la grande disponibilità del nuovo esecutivo, non a caso guidato da una donna come Giorgia Meloni, a concentrare un impegno complessivo su giovani e parità di genere.