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Care imprese, cavalcate le opportunità digitali| Civiltà del Lavoro 3/2023

13.11.2023

Intervista a Nino Lo Bianco

Articolo pubblicato nella rivista n.3/2023 di Civiltà del Lavoro

 

Nino Lo Bianco è un manager e imprenditore nel settore della consulenza. Ha maturato quarant’anni di esperienza ai più alti livelli nell’industria, nei servizi e nella Pubblica Amministrazione in Italia e all’estero. Oggi è presidente di Bip, multinazionale italiana della consulenza.

Nel suo recente libro “È il momento di osare”, esorta le imprese a usare al meglio le soluzioni offerte dal digitale. Le aziende italiane lo stanno facendo? E che cosa si potrebbe fare di più, anche per utilizzare al meglio i fondi del Pnrr?

Il digitale costituisce un’opportunità imprevista, di portata eccezionale per l’umanità. Ci ha resi ubiqui, potendo farci essere contemporaneamente in più posti del globo senza muoverci dal nostro ufficio, dalle nostre case. Ha reso possibile comprare e vendere prodotti e servizi a sconosciuti senza necessità di incontrarli. Ha offerto dimensioni globali alle attività di artigiani e aziende senza richiedere la creazione di strutture commerciali o attività di marketing ad hoc. Non saperne approfittare è un limite grave e costituisce una fonte di provincialismo culturale, che genera un’arretratezza commerciale e un’assenza di stimoli per l’innovazione.

Questa grande opportunità, se non usata appieno, non consentirà di assumere posizioni di leadership di settori e potrebbe rivelarsi causa di marginalizzazione o, in alcuni casi, di espulsione dal mercato. Non si tratta oggi solo di osare, il monito è ora divenuto un imperativo imprescindibile. Divenire digitali per le aziende è ormai un must. La competizione si è fatta più accesa, i nostri competitor si sono attrezzati strutturalmente e quindi non sono più ammessi timidezza, tentennamenti e ritardi.

Le aziende sono alle prese anche con i temi legati alla sostenibilità, dalla decarbonizzazione all’economia circolare: il sistema produttivo italiano sta affrontando adeguatamente questa sfida?

Il tema è vasto e coinvolge molti e differenti aspetti della gestione. La sensibilità è certamente molto cresciuta in questi ultimi anni e la tendenza, d’altronde inarrestabile, è ulteriormente in aumento. Alla sensibilizzazione non mi sembra sia seguito, però, uno sforzo e un impegno pari a quello richiesto per l’efficace risoluzione dei problemi. Un giudizio sull’intero fenomeno è però certamente positivo. Sotto la spinta dei più giovani consumatori si rischia l’emarginazione se non è evidente un impegno aziendale convinto. Le grandi aziende, i fornitori dei servizi, di energia in particolare, stanno impiegando grandi risorse e portando il Paese a raggiungere i traguardi fissati per la salvaguardia del pianeta con qualche anno di anticipo.

Le aziende medie e le piccole, però, offrono un panorama molto più variegato. A fronte di operatori molto attenti, sensibili, che stanno investendo parecchio affrontando questi temi con grande impegno e rigore per ridurre le emissioni e i rischi di inquinamento ecologico, ve ne sono altri che stanno offrendo soluzioni temporanee, acquisendo crediti verdi compensatori senza operare per annullare le loro fonti dirette di inquinamento.

La pandemia e le evoluzioni geopolitiche, dalla guerra in Ucraina al confronto Usa-Cina, obbligano a una modifica delle catene del valore: si parla di reshoring e di ridefinizione della globalizzazione. Che dovrebbero fare le nostre imprese?

Il processo di globalizzazione, che ritenevano avere definitivamente acquisito dimensioni planetarie, sta conoscendo una fase di arretramento e di sfilacciatura. Ci si è accorti, a causa del Covid, ma soprattutto della guerra in corso, delle minacce di allargamento del conflitto e della crescente competizione con il sistema cinese, che l’eccessiva dipendenza da fonti provenienti da paesi con cui esiste o potrebbe esistere un potenziale conflitto di interessi rende instabile e mette a rischio la nostra economia e la sicurezza dell’industria occidentale. Da qui la ricerca di fonti energetiche sostitutive e la necessità di investimenti tecnologici e iniziative specifiche per rendere indipendenti alcuni settori strategici per la nostra crescita. Si stanno quindi riconfigurando le iniziative di ricerca e investimento nei settori strategici della difesa, ma anche dell’industria di consumo, microchip, circuiti stampati di precisione, etc.

Le altre industries sono più guidate nelle loro scelte di reshoring dalle esigenze di controllo della qualità e del processo di produzione, anche se comporta costi leggermente più elevati rispetto alle altre motivazioni geopolitiche dei grandi operatori.

Un suo libro del 2009 si intitola Volevo fare il consulente: mezzo secolo di capitalismo italiano visto dall’interno: quali sono stati in questi 50 anni i pregi e i difetti delle imprese italiane?

A mio avviso, il difetto maggiore è stato quello dell’appagamento e della caduta di tensione rispetto al rischio imprenditoriale e alla disponibilità ad affrontare le nuove opportunità globali con lo stesso spirito che le aveva sostenute nel processo di crescita che le aveva contraddistinte quando si erano imposte sul mercato nazionale.

Questa constatazione vale in particolare per le grandi aziende. Vedi la decrescita di peso competitivo, in alcuni casi la scomparsa, di tutta la grande industria manifatturiera che aveva dominato dal Dopoguerra agli anni Settanta (Montedison, Fiat, Pirelli, Stet, Merloni, Marzotto e così via). Anche molte aziende medie di successo hanno passato la mano, monetizzando per la famiglia il valore creato in precedenza.

La caduta dell’accettazione del rischio come componente essenziale dell’attività imprenditoriale ha portato a ridurre gli investimenti in ricerca e innovazione, contrarre le opportunità di crescita internazionale. L’estrema vitalità delle piccole e medie, al contrario, ha generato molti campioni o campioncini di successo, che stanno creando un’offerta borsistica di interesse globale e di valore riconosciuto internazionalmente.

C’è da sperare che anche nel digitale emerga una capacità di successo di misura più rilevante rispetto all’attuale, vista l’esiguità degli Unicorni sviluppati in Italia rispetto al totale mondiale.

C’è chi sostiene che le imprese italiane sono ancora troppo piccole e dovrebbero crescere per poter aumentare la produttività e dunque anche i redditi dei lavoratori. Ma come crescere mantenendo la flessibilità e la capacità di adattamento tipiche delle nostre aziende?

È vero. La taglia delle nostre aziende è più bassa di quella degli altri paesi europei e nordamericani. L’esigenza di sviluppare campioni nazionali, capaci di competere nell’arena globale, richiederebbe l’aggregazione e il consorzio di molti operatori della stessa industria e la creazione di filiere che possano presidiare il mercato con maggiore autorevolezza, allargando le possibilità commerciali che offre il mercato globale.

Il problema maggiore non è rappresentato dalla mancanza di capitali, oggi sovrabbondanti a livello internazionale e in cerca di impieghi remunerativi, ma dello spirito di individualismo e di autoreferenzialità di molti dei nostri imprenditori.

“Piccolo è bello” è stato uno slogan di successo ma deleterio, perché ha alimentato l’inclinazione negativa alla collaborazione tipica del nostro Paese, producendo un auto-isolamento che ha contribuito alla fortuna dell’industria tedesca, ma anche francese, le quali hanno potuto contare su fornitori italiani eccezionali, per qualità e prezzo.

In questo modo, però, le nostre imprese si sono assegnate un ruolo vassallo, poco indipendente, plafonato da chi detiene il rapporto con il cliente/consumatore finale.

Guardando al futuro, cosa suggerirebbe agli imprenditori italiani?

Guardate al futuro con coraggio. Non ci sono mai state tante opportunità come in questi anni per fare azienda. Ci sono capitali in cerca di buone idee, ci sono strumenti digitali impensabili fino a qualche anno fa. È possibile pensare in grande, è questione di atteggiamento e di voglia di essere i protagonisti e non i comprimari nell’arena internazionale! Abbiamo bisogno di ricreare una generazione di nuovi imprenditori, meno orientati alla finanza e più curiosi e aperti al rischio innovativo.

 

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