Sono nato il 26 novembre del 1932. Mio padre Vincenzo morì di tetano nel febbraio del ‘44. Degli anni precedenti al ‘40 ricordo poco. All’epoca della grande depressione, Salerno aveva trentamila abitanti. Nel dopoguerra si sarebbe estesa. Allora era più piccola, oltre che più povera. Secondogenito e unico maschio di cinque figli, fin da piccolo ho imparato l’arte del digiuno. Ricordo che, in famiglia, aspettavamo che papà fosse riuscito a procurarsi di che comprare pasta e olio. Cercavamo di resistere; poi, eravamo sopraffatti dal sonno. Quando papà arrivava, mamma Angelina ci svegliava per mangiare. Mangiavamo mezzo assonnati. Ma quando Vincenzo Boccia aveva soldi in tasca, sapeva essere generoso. Invitava anche qualche amico bisognoso. Ne chiamava sempre uno in particolare, poverissimo: don Luigi, insieme alla moglie. Organizzava tavolate. O tutto o niente. Gli Americani, già sbarcati in Sicilia, subito dopo l’armistizio erano giunti fino a Paestum. L’operazione Avalanche (valanga) assestò un altro colpo al nemico, costringendolo a riposizionarsi decine di chilometri più indietro. I tedeschi si ritiravano, ma senza rinunciare a portarsi con loro, prigionieri, italiani adulti, dopo l’8 settembre considerati come dei traditori. Presero anche mio padre. Feci in tempo a vederlo, spintonato da un militare corpulento ma di bassa statura, raggiungere l’autocarro per ammassarsi con gli altri. Pensai che per tutti loro non ci sarebbe stato più ritorno. Ma papà era un uomo pieno di energia, capace di reggere pesi da un quintale. Non si arrendeva facilmente, non lo fece nemmeno in quell’occasione. Il giorno dopo riuscì a fuggire assieme ad altri dal campo di Avellino dove era stato temporaneamente destinato, per essere poi condotto in un lager tedesco. Si era fatto strada attraverso il reticolato arrugginito con cui i militari tedeschi avevano recintato il campo. Ci raggiunse e si nascose in una botte grande alta come un uomo. Ricordo quei momenti come fossero ieri. I tedeschi che cercavano gli evasi, la perquisizione che giunse fino alla cantina. Un soldato si appoggiò con la mano alla botte dove si era nascosto papà. Se ne andarono. Papà, scappando, si era ferito a una mano, ma non ci aveva badato più di tanto. Di qui l’infezione, il tetano.
Per papà, di riprendere il lavoro al porto, non se ne parlava proprio. Era zona militare, controllata dagli statunitensi. L’accesso era vietato. Dovevamo organizzarci, porre le basi per una nuova vita. Papà adocchiò un locale abbandonato a Portanova, dove prima del conflitto si giocava al bancolotto. Cominciò a vendervi della frutta. Ero un bambino di undici anni, ma fiero di alzarmi con lui alle quattro di mattina per andare col nostro carrettino al mercato dove comprare quello che avremmo rivenduto poche ore dopo. Non era una vita facile, ma a distanza di tanto tempo ricordo quelle poche settimane come un sogno, un’avventura, la speranza che tutto potesse riprendere con maggiore fortuna di quella che c’era toccata prima della guerra. L’illusione durò qualche mese. Poi, si palesò la sua malattia. Non riusciva a ingoiare. I medici pensavano che fosse un problema di tonsille. Lo curavano e lui continuava a peggiorare. Cessò l’attività. Fu ricoverato agli Ospedali Riuniti di Salerno San Giovanni Di Dio e Ruggi d’Aragona. Stette lì qualche settimana. Per me, bambino, le visite erano proibite. Per vederlo nella sua stanzetta dovevo arrampicarmi su un muretto. Riuscivamo a parlarci. Poco prima di lasciarci si raccomandò: ora sei tu l’unico maschio, il capofamiglia! Fu seppellito nella fossa comune.
(Articolo pubblicato su Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2013)