Negli anni della crisi hanno registrato performance di redditività superiori a quelle delle grandi e delle piccole aziende, con crescite a doppia cifra nelle vendite (+25,3%), nelle esportazioni (+49%), nel valore aggiunto (+31,1%) e perfino nell’occupazione (+10,6%). Sono le medie imprese, considerate da molti osservatori come le autentiche àncore di salvezza del sistema industriale italiano. Dato ancor più significativo è che a distinguersi su scala nazionale nel decennio 2006-2016 sono state le medie imprese del Mezzogiorno, con un incremento di fatturato straordinario (+34%), un balzo in avanti delle esportazioni (+67,2%) e una crescita superiore al dato nazionale per l’occupazione (+12,4%). Eredi dirette della grande tradizione manifatturiera, le medie aziende del Sud sono imprese senza il glamour dei grandi marchi, quasi sempre con governance familiare, rapide nelle decisioni, talvolta leader in segmenti di nicchia del mercato globale.Costrette a operare in contesti parcellizzati e poveri, sono aziende che agiscono solitamente come one-man band, senza cioè beneficiare dei vantaggi di sistema di un contesto di industrializzazione diffuso tipico delle imprese distrettuali massicciamente presenti al Nord. Eppure, nonostante la fragilità del tessuto territoriale, le pressioni del sistema bancario e le resistenze tipiche di metodi di governance quasi sempre familiari, il 41% delle “3M” (imprese Medie e Manifatturiere del Mezzogiorno) ha incrementato profittabilità e fatturato (le imprese “lepri”), mentre anche laddove si sono registrate delle perdite in profittabilità, molte imprese del campione (35%) sono riuscite a incrementare la propria solidità patrimoniale (le imprese “formiche”).
È la fotografia emersa dalla ricerca “I processi di crescita dimensionale delle aziende del Mezzogiorno” presentata da Francesco Izzo, ordinario di Strategie e managment dell’innovazione dell’Università degli Studi della Campania “Vanvitelli”, oggi martedì 20 marzo a Roma presso la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro in occasione dei Forum di Civiltà del Lavoro. Ai lavori hanno partecipato Pietro di Leo, amministratore unico di “Di Leo Pietro” e Marzo Zigon, presidente di Getra. L’indagine ha consentito di cogliere i caratteri genetici, le strategie competitive, il posizionamento nel mercato, i processi decisionali e i comportamenti organizzativi, le scelte di governance, le relazioni con le banche, di un segmento fondamentale dell’economia reale del Mezzogiorno. È a queste imprese che si lega in modo indissolubile una buona porzione del destino industriale del Mezzogiorno; sia perché dotate di una scala dimensionale indispensabile per competere in un mercato ormai senza confini, sia perché possono illuminare quel sentiero di crescita che micro-imprese e piccole imprese potrebbero provare a intraprendere.
“Il divario competitivo dell’industria meridionale – sottolinea Francesco Izzo – è inevitabilmente collegato al deficit di dimensione. Imprese troppo piccole per essere in grado di investire in innovazione. Per questo abbiamo indagato un’area dell’economia industriale del Mezzogiorno ancora non esplorata a fondo: le medie imprese manifatturiere. Imprese medie, e quindi in grado di aver compiuto quel salto dimensionale che rende tali organizzazioni una specie rara nel sistema imprenditoriale Meridionale, provando a comprendere i processi di crescita, e dunque con un evidente risvolto pedagogico per le micro e piccole imprese che invece rimangono intrappolate in una strada che rischia di trasformarsi presto in un vicolo cieco”.
Ricerca Università della Campania “L. Vanvitelli” – Cavalieri del Lavoro
Il rapporto coordinato da Izzo è stato realizzato insieme a Nicola Moscariello e Pietro Fera dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, e costituisce un aggiornamento al febbraio 2018 elaborato per la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro del progetto di ricerca 3M – Medie imprese Manifatturiere del Mezzogiorno – finanziato da Arfaem – Associazione per la ricerca e l’alta formazione nel Mezzogiorno. Avviato nel 2010 lo studio è stato condotto su 707 imprese e oltre 3.000 osservazioni su bilanci aziendali nell’arco temporale dal 2007 al 2012, i cui primi risultati sono stati pubblicati nel 2017 nel volume Il Mestiere di crescere curato da Francesco Izzo.
In occasione del Forum organizzato dalla Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, la ricerca è stata aggiornata con un’analisi estesa dal 2007 fino al 2016 su campione di 734 medie imprese industriali del Mezzogiorno, selezionate dal database Aida Bureau van Dijk fra le società di capitali con sede legale in una delle otto regioni meridionali che almeno una volta fra il 2007 e il 2016 avessero registrato un fatturato compreso fra i 10 e i 100 milioni. Una scelta che ha consentito di accogliere nell’indagine imprese di settori tradizionali, per esempio le aziende dell’abbigliamento e delle calzature.
L’analisi dei parametri economici, patrimoniali e finanziari esaminati – dal 2007 al 2016 – ha permesso di individuare alcune peculiarità delle imprese del Sud Italia, sottolineandone i relativi punti di forza e di debolezza.
Distribuzione geografica e composizione settoriale del campione
La maggior parte delle aziende (279 unità, pari al 38% del campione) opera in Campania. La Puglia, con 161 aziende (pari al 21,9% delle unità analizzate), rappresenta la seconda regione del Mezzogiorno per numerosità d’imprese incluse nel campione di riferimento. Il 14,9% del campione (con 109 unità) è costituito, poi, da aziende con sede legale in Abruzzo, mentre la Sicilia risulta rappresentata da 101 unità (per una percentuale del 13,8). Il restante 11,5% circa è, infine, suddiviso tra la Sardegna (con 32 unità), la Basilicata (con 20 unità), la Calabria (con 20 unità), ed il Molise (con 12 unità).
Alimentare e meccanica i settori trainanti
Dall’analisi dei dati, si desume la decisa vocazione delle aziende del meridione verso il settore alimentare. D’altronde, eccezion fatta per l’economia abruzzese e lucana in cui primeggia il comparto meccanico, il contributo offerto dalle aziende operanti nel settore alimentare risulta sempre significativo, con un picco del 70% del fatturato complessivamente prodotto nella regione Calabria, un valore del 46% in Sicilia ed una quota superiore a 30 punti percentuali in tutte le altre regioni (Campania, Molise, Puglia, e Sardegna). Un’analisi dettagliata per regione mostra, poi, il ruolo di rilievo assunto nell’economia delle diverse aree esaminate anche dal settore meccanico e da quello dei beni per la persona e per casa. Anche il settore chimico e farmaceutico, infine, merita una menzione dato un peso relativo che supera i 15 punti percentuali in Abruzzo, Campania, Molise, e Sicilia.
Gli “esploratori” e le “formiche”
Attraverso l’indagine condotta dai ricercatori dell’Università della Campania è possibile inoltre segmentare il campione di imprese per comprendere meglio l’evoluzione degli ultimi anni, gli effetti e le reazioni alla crisi. distinguere le imprese in “esploratori” e formiche. Utilizzando infatti come indicatori l’indice di profittabilità rilevato da ciascuna azienda fra il 2007 e il 2016 (Roi) e il rapporto di indebitamento, emergono per esempio quattro differenti raggruppamenti di imprese. Il primo comprende le imprese migliori, quelle in grado di far segnare nel periodo di osservazione un incremento sia della profittabilità sia della solidità (34%). Si è definito questo gruppo come quello degli “esploratori”. Le imprese che vi fanno parte sono riuscite, in anni difficili, a guadagnare altrove spazi di mercato e opportunità di crescita. Il consolidamento delle posizioni competitive ha consentito di migliorare l’equilibrio patrimoniale. Dimostrano altresì che il successo non è mai causale, né si improvvisa: molte delle imprese con migliori performance avevano già segnato risultati positivi prima che la crisi si manifestasse in tutta la sua durezza. Sul fronte opposto, le imprese “sofferenti” (19%), in arretramento per entrambi gli indicatori (quadrante in basso a sinistra): la profittabilità in calo si accompagna ad un aumento del rapporto di indebitamento, segnalando l’ingresso in una zona di alto rischio per la sopravvivenza futura.
Di estremo interesse è il terzo raggruppamento, costituito dal 35% delle imprese (è il segmento più popoloso) che associano a una profittabilità in calo un incremento della solidità (“le formiche”). Appare probabile che la crisi oltre a determinare un restringimento dell’accesso al credito abbia spinto gli imprenditori alla guida di aziende con redditività in discesa a interventi di ricapitalizzazione, attingendo anche al patrimonio familiare. E ancora, è verosimile che tale scelta sia stata dettata dalla volontà di “soddisfare” le esigenze di rientro da parte degli istituti di credito, rinunciando a opportunità di investimento profittevoli. In ogni caso, pur esercitando un effetto negativo sugli equilibri economici di breve termine, la ristrutturazione nelle fonti di finanziamento di una larga parte delle medie imprese del Mezzogiorno dovrebbe premiare gli equilibri finanziari di lungo periodo.
Le “resistenti” e le “lepri”
Mettendo in rapporto il valore medio della profittabilità delle imprese alla variazione di fatturato nell’arco temporale che va dal 2007 al 2016, emergono altri due segmenti di imprese molto significativi: le “lepri” e le “resistenti”.
Le “lepri” (bel il 41% del campione) sono le imprese che nonostante la crisi sono riuscite a incrementare profittabilità e fatturato. Le resistenti sono invece le imprese che hanno registrato una contrazione di redditività e nel contempo una crescita del fatturato, ovvero imprese che hanno compresso ai limiti i propri margini pur di non perdere quota nel mercato: sono pari al 37%.
Aziende ancora troppo piccole
L’esame delle dimensioni medie delle aziende del campione e uno studio delle loro variazioni assunte nel tempo ha permesso di evidenziare come circa il 50% di esse rientri entro il limite di 15 milioni di euro annui e più del 70% entro i 25 milioni di euro annui. Le medie aziende manifatturiere del Meridione, dunque, dovrebbero essere più correttamente classificate come imprese di “medie-piccole” dimensioni, con fatturato medio (mediano) annuo pari a 22,863 milioni di euro (15,501 milioni di euro).
Pur in presenza di una generale situazione di crisi finanziaria, che si è protratta per diversi anni dopo il 2009, il fatturato delle aziende è aumentato, in media, di circa 6 milioni di euro, rispetto ai dati pre-crisi. Un’osservazione analitica per settori permette di evidenziare come la crescita dimensionale (misurata determinando il valore medio delle variazioni registrate in ogni annualità compresa tra il 2007 ed il 2016) abbia riguardato principalmente le aziende del settore meccanico, per cui si rileva una crescita media di poco superiore al 40%, seguito poi dal comparto alimentare.
Proprietà familiare: un freno all’innovazione
Dall’indagine affiora una costellazione di ambiguità e di dilemmi irrisolti che rendono in modo efficace la complessità del “fare industria” nel Mezzogiorno. In primo luogo, la governance. La proprietà familiare offre all’impresa il vantaggio della flessibilità e garantisce coerenza, comprime i tempi di risposta ed esalta la velocità di reazione, semplifica i meccanismi operativi e rende fluidi i processi decisionali, consegna all’impresa capitale “paziente”. Eppure, a volte, rischia di rivelarsi la fonte principale di resistenza al cambiamento. Capacità organizzative, attitudine imprenditoriale, leadership non sempre si ereditano e il deficit di competenze manageriali appare come uno dei gap più pericolosi per il futuro delle imprese indagate.
Crescere per forza?
Competere in nicchie di mercato, come capita a molte medie imprese del Mezzogiorno, se permette di allentare la pressione sui prezzi e di ritagliarsi “zone di conforto” al riparo di relazioni di lungo termine, tuttavia non sempre è garanzia di sostenibilità per gli anni a venire. C’è però qui il segreto del successo di alcuni dei casi più interessanti del panel: la capacità – senza dubbio ancor più affinata sotto il martello della crisi – di perseguire una strategia che mentre mira alla differenziazione dell’offerta e alla personalizzazione del prodotto e dei servizi al cliente, non ha mai trascurato l’efficienza produttiva. Una strategia ambidestra tale da sostenere quei processi di crescita prudente, cauta, controllata, che rappresenta il tratto dominante delle migliori medie imprese industriali del Mezzogiorno che abbiamo incontrato. «L’azienda l’anno prossimo fa 85 anni di storia. Cresce sempre poco ma cresce sempre anche negli anni più difficili», ha raccontato un imprenditore di terza generazione. Crescere troppo, e troppo in fretta, semmai fosse stata un’opzione, è sembrato perfino, a volte, spaventare gli imprenditori. Molti hanno candidamente ammesso di preferire “non crescere”.