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Dall’Italia si emigra (ancora): IDENTIKIT DI CHI PARTE | Civiltà del Lavoro6/2024

13.02.2025

È pari agli abitanti di Genova e un po’ meno della metà della popolazione di Milano il numero di giovani tra i 18 e 34 anni che dal 2011 hanno lasciato il nostro Paese per trasferirsi all’estero. Sono, infatti, ben 550mila. A dirlo è il rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero”, realizzato dalla Fondazione Nord Est, il forum economico a cui hanno data vita le Confindustrie e le diverse categorie economi che del Nordest d’Italia. Cifra che “potrebbe triplicarsi se si considera la sottovalutazione dei dati ufficiali”, come spiega Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est.

In aggiunta, l’Italia non riesce ad attrarre altrettanti giovani dagli altri paesi avanzati, tanto che per ogni giovane che arriva nel Bel Paese sono ben otto i giovani italiani che fanno le valigie per andare all’estero. Infine, volendo quantificare la perdita di capitale umano, parliamo di 134 miliardi in meno per l’economia nazionale.

 

Direttore Paolazzi, il rapporto fotografa un’emigrazione intensa e inedita. Qual è stato l’andamento delle migrazioni nel periodo da voi considerato?

La nuova emigrazione dei giovani italiani è iniziata nel 2011 e il flusso in uscita è andato crescendo fino alla pandemia, quando è un po’ calato, ma poi è ripreso successivamente ai ritmi più elevati. Nei 13 anni, al 2023 in totale sono andati via 550mila cittadini italiani di 18-34 anni di età e il saldo con quanti sono arrivati nello stesso pe riodo è di -377mila.

In confronto con le passate ondate emigratorie sarebbero numeri più contenuti, ma le statistiche ufficiali sottostimano largamente la reale dimensione del fenomeno, cosicché per avere il dato effettivo occorre triplicare i dati che ho appena indicato. Ha ragione a chiamare “inedita” questa emigrazione per tre motivi: partono giovani molto istruiti, partono dalle regioni italiane più ricche, economicamente e in termini di opportunità, e partono in un contesto demografico radicalmente cambiato. Siamo in piena glaciazione demografica e i giovani stanno diminuendo a vista d’occhio e ancora di più diminuiranno nei prossimi anni. Sono, cioè, merce rara.

 

Perché i giovani scelgono di trasferirsi all’estero?

Vanno all’estero per trovare condizioni di vita e di lavoro migliori. Non si tratta solo di avere una retribuzione più elevata, che pure è importante, ma soprattutto di immergersi in un ambiente sociale e imprenditoriale più evoluto di quello italiano, in un luogo di lavoro dove si impara e si cresce come persone, in imprese con alta reputazione e innovative, dove prevalga la cultura della meritocrazia e dell’inclusione, che vuol dire assenza di discriminazione.

I giovani si mettono in gioco e sono pronti a rischiare se gli si danno responsabilità e autonomia decisionale.

 

Qual è l’aspetto più interessante che emerge dal rapporto?

A mio avviso colpisce la grande differenza di atteggiamento e di visione tra i giovani expat e i giovani rimasti in Italia. Sicuramente chi se ne va ha una più elevata propensione a rischiare e quindi un maggior ottimismo. Però la distanza è davvero impressionante: nove giovani expat su dieci ritengono che il futuro sia frutto del suo impegno, contro sei tra i rimasti; sette su dieci che sia felice e ricco di opportunità, contro cinque e quattro rispettivamente; sei che sia migliore, contro quattro; mentre tra chi è rimasto più frequentemente il futuro è considerato pauroso, povero, senza lavoro. Insomma, si respira che chi se ne è andato si trova bene fuori dall’Italia e, soprattutto, che ha doti e valori preziosi in termini di fare e visione.

 

In base alle caratteristiche personali (origini familiari, percorso di studi), sono stati tracciati due identikit di giovani expat. Quali sono?

Le molte domande del questionario, assai ricco e articolato, hanno consentito di individuare due tipi di emigranti, che abbiamo chiamato “per necessità” e “per scelta”, per indicare soggetti mossi da motivazioni diverse e con diverse basi di partenza.

Qualcuno arriccia il naso di fronte all’etichetta “per necessità”, perché ritiene che il lavoro al Nord ci sia per tutti, non comprendendo che queste persone hanno una gran voglia di riscatto sociale, che da noi è preclusa proprio perché non siamo ancora capaci di dare piena fiducia ai giovani, soprattutto a quelli che, per una ragione o per l’altra, non sono riusciti a completare le superiori e sono quindi marchiati come “fannulloni” e “incapaci”. Altrove, invece, sono messi alla prova e, se dimostrano di saper fare, hanno un lavoro con prospettive di crescita professionale.

 

Dai vostri studi emerge che l’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa per attrazione di giovani. Cosa si può fare per invertire questo trend?

Occorre un mix di politiche aziendali e pubbliche. A guardar bene, sono proprio le imprese, e quindi gli imprenditori, ad avere il boccino in mano, perché la gran parte dei cambiamenti necessari per rendere l’Italia più attrattiva per i giovani dipendono dalla cultura di impresa e dalla governance. Il punto è che, proprio perché sono merce rara, ormai sono i giovani a selezionare le imprese, e non viceversa.

 

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