CONVEGNO NAZIONALE 2019
EUROPA: RADICI – RAGIONI – FUTURO
Napoli, 28 settembre 2019
Teatrino di Corte – Palazzo Reale
Piazza del Plebiscito
L’intervento di ANTONIO D’AMATO
Presidente della Federazione Nazionale Cavalieri del Lavoro
Buongiorno a tutti, cari amici, cari Cavalieri del Lavoro. Soprattutto, buongiorno e benvenuto, signor Presidente della Repubblica. Siamo lieti e onorati della sua presenza qui oggi e cogliamo quest’occasione soprattutto per ringraziarla di cuore e con assoluta sincerità per il rigore istituzionale e per l’autorevolezza con la quale Ella dà indicazioni chiare e riferimenti a ciascuno di noi. Grazie per quello che sta facendo e grazie per l’immagine che contribuisce a creare dell’Italia nel mondo.
Grazie.
L’applauso sincero dimostra il sentimento che tutti noi proviamo. È lo stesso sentimento che ci porta oggi a discutere e dibattere di un tema estremamente importante per noi, un tema quale quello del futuro della nostra Europa, nel quale noi vediamo anche il futuro del nostro Paese, il futuro dei nostri valori, il futuro dei nostri ideali. Un tema che abbiamo voluto affrontare rifuggendo le dinamiche dei dibattiti orientati al confronto sul breve momento e lavorando di più sugli spunti e soprattutto sulle analisi delle ragioni profonde per le quali dobbiamo
riflettere su come costruire un percorso diverso di quest’Europa. Abbiamo voluto interrogarci sulle radici, sulle ragioni dell’Europa per poter individuare le linee di tendenza del futuro da costruire.
Se questo era l’obiettivo, devo dire che è stato veramente conseguito grazie al contributo eccellente di tutti i nostri relatori. Abbiamo toccato, con le analisi fatte e con i dibattiti svolti, alcuni dei nodi fondamentali che è indispensabile sciogliere per andare avanti.
Siamo partiti da questa riflessione, che poi rappresenta uno dei motivi costanti dell’impegno e dell’attività dei Cavalieri del Lavoro in questi anni, perché siamo profondamente convinti che ci sia un bisogno assoluto di Europa. Pur essendo l’Europa oggi in crisi come non mai, noi abbiamo bisogno di Europa più che mai.
Ne abbiamo bisogno perché il mondo, che sta vivendo contraddizioni e tensioni senza precedenti negli ultimi decenni, determinate anche dal modo in cui la globalizzazione rimette in discussione equilibri dal punto di vista economico, industriale, sociale e geopolitico, richiede una presenza non più solo di Stati in grado di competere, di crescere, di svilupparsi e di contribuire alle dinamiche e agli equilibri di politica internazionali. Richiede davvero un’Europa più forte, più unita dal punto di vista politico, più competitiva dal punto di vista economico e più efficace e più efficiente dal punto di vista istituzionale.
I temi che abbiamo sul tavolo sono stati tutti tratteggiati negli interventi di oggi: la pace, conquista questa di fondamentale importanza e che oggi le nuove generazioni possono dare per scontata, così come la salute, perché si capisce l’importanza di questo bene supremo solamente quando si è perso.
Al di là della pace, c’è poi l’emergenza della sostenibilità ambientale, che è uno dei temi di assoluta rilevanza, rispetto al quale ciascuno di noi è impegnato, come cittadino, come imprenditore, come Paese, a intervenire in maniera responsabile: è un bene di tutti, è un bene seriamente compromesso.
Immaginare, poi, che lo sviluppo industriale e tecnologico possa essere in contraddizione con la sostenibilità ambientale, domanda che è stata ricorrente in queste ore di dibattito, è assolutamente fuorviante: senza sviluppo di tecnologia e senza crescita economica, non possono esserci risorse e know how da investire per recuperare il pianeta e renderlo più sostenibile. La vera chiave di volta è rendere il nostro modo di produrre, di vivere e di lavorare al tempo stesso sostenibile. Chiunque di noi fa questo mestiere, quello dell’imprenditore, sa che senza la sostenibilità nel lungo periodo non c’è investimento che si regga.
Al di là del tema della pace, della sostenibilità del pianeta, c’è un altro tema fondamentale, sul quale dobbiamo seriamente interrogarci subito per le ragioni di un’Europa più forte e più unita: quello della crisi, sempre più forte, delle democrazie occidentali, rispetto, in un confronto globale sempre più stringente, a realtà che difettano di democrazia, ma che hanno una maggiore efficacia ed efficienza nel governo delle loro dinamiche interne, e soprattutto nella conquista, nel breve periodo, di posizioni di potere e di forza, anche dal punto di vista economico.
Pensare che la cooperazione possa nascere solamente da uno slancio d’intenti e non leggere anche tendenze e tentazioni egemoniche in quelle grandi potenze che nel mondo si stanno affermando come leader nell’attrazione e nella creazione di investimenti, ad esempio come sta avvenendo tra Cina e Stati Uniti, dove la povera Europa rimane veramente ai margini, vuol dire non aver capito qual è la direzione e la dimensione nella quale sta andando la globalizzazione. Chi come noi imprenditori gira il mondo capisce che queste cose sono reali, stanno accadendo e richiedono interventi di tipo diverso.
Abbiamo bisogno di Europa, quindi, oggi più che mai. Ne abbiamo bisogno per garantire la pace, ne abbiamo bisogno per governare la sostenibilità del pianeta, ne abbiamo bisogno anche per equilibrare una globalizzazione che corre il rischio di non fare prigionieri e ne abbiamo bisogno soprattutto per garantire quel benessere, quella difesa delle conquiste sociali che sono un patrimonio della nostra storia e della nostra civiltà e che sono anche indispensabili perché il ceto medio, la vera spina dorsale della democrazia, possa continuare a rappresentare la garanzia anche nel futuro di un equilibrio democratico.
Sappiamo che ogni volta, e la storia ce lo dimostra, che il ceto medio viene a soffrire o viene compresso, e purtroppo questo è quanto sta accadendo in tutte le democrazie occidentali negli ultimi anni, nascono poi intolleranze, razzismi, sentimenti che hanno proiettato nel secolo scorso ombre terribili e che noi dobbiamo saper combattere, saper contrastare, riaffermando i valori e le opportunità della nostra civiltà e della nostra storia. Abbiamo bisogno di più Europa.
Vogliamo più Europa. Abbiamo, però, anche bisogno di un’Europa diversa, di un’Europa che sappia uscire dal guado nel quale purtroppo oggi è scivolata, come il dibattito di oggi ha chiaramente indicato, che sappia soprattutto realizzare quelle dinamiche fondamentali proprio per recuperare un ruolo all’interno e all’esterno dei nostri confini del quale non possiamo più fare a meno.
Penso a un’Europa che, quindi, sappia anche garantire ai propri cittadini capacità di crescita e capacità di sviluppo. Diceva Quadrio Curzio, chiudendo il suo intervento, per il quale lo ringrazio, che l’Europa oggi non ha superato la sua crisi. Io aggiungerei che l’Europa oggi si trova di fronte a un rischio di crisi ancora maggiore rispetto a quello che ha vissuto nel corso degli ultimi anni, proprio perché le dinamiche con le quali oggi noi ci stiamo confrontando a livello globale vedono un’Europa così disunita e così fragile che non riesce a crescere. Un’Europa che corre il rischio di emarginarsi ancora di più.
Nel momento della costruzione dell’Europa unita, e soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni, abbiamo davvero smarrito la strada dal punto di vista della strategia competitiva. Quando abbiamo creato l’euro, abbiamo anche pensato che fosse possibile «outsourceare» nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nei Paesi dell’Estremo Oriente, la nostra manifattura difendendo il nostro modello di crescita e di benessere, mantenendo qui innovazione, intelligenza, formazione e qualità.
Abbiamo commesso un errore drammatico. Abbiamo, cioè, dimenticato che la ricerca e l’innovazione e gli investimenti in scienza e tecnologia si accompagnano sempre strettamente con la produzione e con la manifattura. L’abbiamo visto. Quello che è accaduto con l’Italia degli anni Cinquanta e col Giappone degli anni Sessanta sta accadendo adesso, con la Cina di oggi. Si spostano le produzioni, prima di bassa qualità e di basso costo, e poi progressivamente quei paesi diventano leader in tecnologia e sviluppo di intelligenza, oltre che paesi competitivi.
L’Europa ha smarrito la strada della competitività. Nel costruire l’Europa unita, abbiamo dimenticato di mettere al centro le strategie di crescita dell’Europa, il rilancio della competitività, la difesa della competitività europea. Ed è un fatto che nel corso degli ultimi decenni il più grande mercato, ancora oggi il più ricco mercato del mondo, è un mercato che si è andato progressivamente impoverendo di investimenti industriali in crescita di base produttiva. I risultati e i dati sono quelli citati prima, ma l’impatto che oggi vediamo è quello di una recessione che continua a essere sempre più forte, anche nei paesi che fino a poco tempo fa riuscivano in qualche modo a non soffrire fino in fondo di queste contraddizioni.
L’interdipendenza che oggi ci lega in Europa fa sì che o siamo tutti in grado di vincere perché siamo in grado di competere o tutti noi perdiamo.
Allora, nel momento in cui l’Europa si costruiva, scivolando verso una fase di iperregolamentazione e di iper-burocrazia, abbiamo dimenticato che dovevamo anche saper conquistare al tempo stesso leve competitive e capacità di attrarre investimenti.
Quell’Europa delle convenienze, sulle quali Jacques Delors aveva costruito questo grande momento nel quale tutti quanti noi abbiamo creduto fino in fondo, come se fosse davvero l’inizio di una nuova epoca, di una nuova frontiera, nel 1992, quell’Europa delle convenienze era un’Europa che conquistava tutti.
Quando, però, queste convenienze, per ragioni interne, per ragioni di contesto internazionale, sono venute progressivamente a ridursi e, dall’altro lato, sono nate esigenze diverse di politiche di bilancio, di politiche di rigore, di politiche in qualche caso restrittive, è stato facile per ciascuno dei Governi nazionali, incapaci di proporre e di fare le giuste politiche di riforme nazionali, scaricare tutte le responsabilità sull’Europa: dall’Europa che tutti volevano, perché conveniva, all’Europa dei sacrifici, che nessuno vuole più perché non conviene più.
Nel frattempo, è mancato qualcosa di fondamentale: quali sono i valori e gli ideali di un’Europa da costruire insieme? Può un’Europa solo sulle convenienze rappresentare una casa comune? O è, piuttosto, indispensabile riuscire ad avere al tempo stesso, per difendere i valori, e quindi anche le convenienze di ciascuno, il benessere, la civiltà, la capacità di includere, l’equità sociale, unire a questi valori e a queste convenienze una visione che li tenga tutti insieme, e quindi riscoprire le proprie identità, le proprie radici e mettere in campo anche politiche di sviluppo e di competitività compatibili con questa visione? Questo è il grande problema, il grande dilemma di fronte al quale noi oggi ci troviamo.
Se l’Europa non esce da questo guado, è destinata a impoverirsi dal punto di vista economico, è destinata a indebolirsi dal punto di vista sociale. Dobbiamo sapere uscire da questa contraddizione, sfuggendo anche al vecchio dibattito, soprattutto italiano, ma non solo italiano, in cui per troppo tempo chiunque contestasse quel tipo di Europa, chiunque mettesse in discussione il credo degli eurottimisti a tutti i costi, era tacciato di essere un euroscettico senza riserve. Lo dico perché per cultura sono stato per anni sempre più un eurorealista e europeista convinto e anche molto grato al contributo che la Gran Bretagna ha dato negli anni passati, quando con grande razionalità faceva pressione perché l’Europa fosse meno burocratica, meno formale e più attenta alle dinamiche di una maggiore efficienza e di una maggiore competitività.
Uscendo da questo contrasto tra gli eurottimisti a tutti i costi e gli euroscettici, dobbiamo anche stare attenti a non cadere nell’altra logica dell’arroganza e della pretesa che battendo i pugni sul tavolo l’Europa possa fare quello che vogliamo, come è stato giustamente detto prima. Abbiamo bisogno, invece, di porci nei riguardi dell’Europa in una logica più responsabile, più autorevole, convinti che sia possibile costruire un’Europa diversa, svolgendo un ruolo da protagonista in questo percorso, e portando quindi il ruolo e il contributo di un Paese che ha dato molto all’Europa e che può dare soprattutto molto di più, proprio per il portato della nostra storia, della nostra civiltà, per il peso della nostra struttura industriale e manifatturiera.
Siamo uno dei Paesi fondatori dell’Europa, abbiamo moltissimo da dare, ma dobbiamo darlo in una prospettiva che sia davvero quella di costruire una casa comune nella quale si scoprano non solo le ragioni e le convenienze, ma anche gli ideali e i valori.
Abbiamo dibattuto molto, questa mattina, di radici. Credo che questo sia uno dei temi fondamentali, una delle ragioni più importanti sulle quali si è interrotta la costruzione di un percorso di una comune casa europea. Abbiamo anche sentito, da chi ha partecipato attivamente alla stesura della Carta costituzionale, quali sono stati i problemi, quali sono stati i punti deboli.
Oggi ci troviamo, tra le varie grandi questioni da affrontare, di fronte a uno scontro di civiltà che a molti fa paura evocare, ma che diventa ancora più pericoloso ignorare.
Ora, questo scontro di civiltà, nella mia personale opinione, si supera non rifiutando, ovviamente, le civiltà degli altri, ma non può essere superato se non si riconosce innanzitutto la propria. Non si può riconoscere l’identità e la cultura degli altri se non si riconosce e se non si è consapevoli delle proprie radici. Saperle ritrovare, saperle riaffermare, essere consapevoli delle nostre radici giudaico-cristiane, di cui abbiamo parlato a lungo, essere anche consapevoli che questo non voglia dire negare il portato dell’Illuminismo o della cultura dei diritti, ricordare, come ha detto monsignor Paglia, che è proprio nella prima parola del cristianesimo la chiara distinzione tra Stato e religione («date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio»), tutte queste cose sono fondamentali.
È un percorso, questo, che va ripreso. È un dibattito, questo, che in Europa non si fa più. È un tema, questo, che va invece recuperato, innanzitutto nel nostro Paese, e da qui portato nuovamente all’attenzione delle coscienze europee, perché è da lì che bisogna partire per costruire un percorso di ideali e di valori, senza i quali anche un’Europa che sappia promuovere convenienze e recuperi di competitività non potrà andare avanti.
Queste sono le radici, queste sono le ragioni. Qual è il futuro? Abbiamo sentito, questa mattina, che la storia pone l’accento sull’eredità pesante e sulla realtà degli Stati nazionali, e che probabilmente quello di un’Europa federale è un sogno per alcuni raggiungibile, e comunque per tutti molto lontano. Nel frattempo, però, da questo quadro dobbiamo uscire. Se non ne usciamo, non solo dal punto di vista politico e da quello della stabilità e della pace nel mondo, ma anche dal punto di vista economico, industriale e competitivo, non saremo in grado di fare niente.
Quali sono le ragioni che hanno indebolito l’Europa in questi vent’anni? Non siamo stati in grado di avere una politica estera commerciale comune. Ogni volta che ci sedevamo ai tavoli dei negoziati del Wto, ciascun Paese europeo aveva la sua agenda. La conseguenza è che abbiamo offerto l’Europa come un mercato aperto a tutti i concorrenti nel mondo e abbiamo consentito quel dumping sociale che conosciamo e che rappresentava la strada, nel corso di tutte le rivoluzioni industriali della storia del mondo, perché popolazioni povere ed emarginate acquisissero ricchezza e benessere, cosa questa che funziona se c’è democrazia e se ci sono dinamiche di diritti riconosciuti, e non funziona quando ci sono regimi autoritari e dove non c’è libertà né di pensiero né di espressione. Attenzione, quindi, a paragonare quel dumping sociale che abbiamo conosciuto tutti, Italia inclusa, come via per la ricchezza e per il riscatto dei ceti poveri, con quello che invece sta accadendo in paesi privi di democrazia, Cina in testa.
C’è un secondo aspetto fondamentale: non abbiamo fatto nulla perché al dumping sociale si affiancasse quello ambientale, con la conseguenza di un’Europa divisa con la contraddizione tra paesi manifatturieri o paesi commerciali, paesi manifatturieri come la Germania e l’Italia, paesi commerciali come la Gran Bretagna e altri paesi del nord Europa, che avevano un’agenda divisa nel dibattito sul Wto.
Non siamo mai riusciti ad avere una linea, per esempio, che mettesse il fair play sulle regole fondamentali all’attenzione dell’agenda di questi trattati. Tutti sciolti, la conclusione è che abbiamo subito da tutti qualunque tipo di dumping, non solo quello sociale, ma anche e soprattutto quello ambientale, e oggi siamo con l’emergenza pianeta davanti a tutti noi.
La mancanza di una politica commerciale comune unica ci pone anche nella difficoltà, con la Francia e altri paesi che hanno un’economia agroindustriale molto specifica e protezionistica, di aprirci ad esempio ai paesi dell’America Latina e del Mercosur, paesi di vocazione e di integrazione immediatamente europea, e in particolare italiana.
Non si può, però, fare una politica estera commerciale comune se non si ha anche una politica estera più allineata, e una politica estera più allineata richiede anche una politica della difesa più integrata, citata anche questa mattina. Abbiamo delegato gli Stati Uniti, dalla Seconda guerra mondiale a oggi, a difendere l’Europa, noi non investiamo abbastanza in difesa. La difesa è anche uno dei grandissimi volani, driver, per la ricerca e per l’innovazione tecnologica. La gran parte dell’innovazione tecnologica che gli Stati Uniti hanno realizzato negli ultimi tre decenni nasce tutta dagli investimenti della Difesa.
Controllare aree strategiche di quelle realtà vuol dire anche essere in grado, non dico di imporre, ma quantomeno di difenderci dalle imposizioni della globalizzazione degli altri. Come in una catena di Sant’Antonio, ciascuno di questi elementi ne richiama qualcun altro. Per fare una politica della difesa comune, per «levereggiare» la politica dell’innovazione tecnologica, abbiamo bisogno anche di avere una politica della ricerca comune, e anche qui possiamo fare più massa critica mettendo insieme degli elementi sui quali divisi non andiamo da nessuna parte, ma mettendo insieme queste risorse in una visione non più solamente egoistica e nazionale, bensì più integrata di maggiore competitività europea, possiamo sicuramente traguardare obiettivi molto più ambiziosi.
Allora, al di là di quelle che possono essere le direttrici di marcia dal punto di vista del processo istituzionale, che sono sicuramente lunghe, complesse e che non possiamo avere la pretesa di affrontare e risolvere questa mattina, ci sono delle cose importanti, fondamentali, che possono essere fatte nel frattempo per rimettere in moto la competitività dell’Europa, rendendoci conto che non possiamo arrogantemente pensare di essere gli unici in grado di controllare i destini della tecnologia e della qualità del mondo. Il dato di fatto è che tutto questo non è più qui in Europa, è altrove. Fatte poche eccezioni, cervelli, innovazione e investimenti vanno altrove. Li dobbiamo riportare qui se vogliamo ridare respiro, fiato e soprattutto occupazione e inclusione ai nostri cittadini europei, difendere i valori, difendere il benessere, la civiltà europea, ed essere in grado in questo modo di svolgere un ruolo nel mondo che è assolutamente indispensabile.
Per fare questo, dopo aver realizzato la cosa più difficile di tutte, che era quella di appropriarci a livello europeo della sovranità di ciascun paese di poter batter conio, abbiamo bisogno di fare passi importanti e accelerare l’integrazione delle politiche europee sul piano della politica estera, della difesa, della ricerca, della formazione e delle politiche economiche.
Su questo molto è stato detto. La competitività fiscale e la competitività anche dal punto di vista legislativo e normativo tra i vari paesi europei è un problema da affrontare, ma non può essere affrontato come abbiamo affrontato tutti gli altri problemi europei elevando i minimi al massimo standard comune. Dobbiamo, piuttosto, cercare, anche qui, di renderci conto che dobbiamo saper disegnare uno scenario nel quale l’Europa possa essere competitiva e competere con le altre aree del mondo, soprattutto quelle più importanti da questo punto di vista, che stanno recuperando dinamiche competitive molto forti, i grandi colossi globali con i quali oggi ci misuriamo.
Tutto questo è indispensabile perché le nostre imprese, i nostri cittadini, noi stessi possiamo immaginare un percorso comune di casa europea, ma naturalmente c’è da chiederci cosa può fare l’Italia su questo.
L’Italia può fare moltissimo. Noi ne siamo convinti. Ciascuno di noi può contribuire a realizzare questo progetto. E l’Italia può fare moltissimo soprattutto se affronta con autorevolezza e credibilità, parole ripetute più volte questa mattina, il modo in cui si pone rispetto all’Europa e anche rispetto alle questioni fondamentali all’ordine del giorno del dibattito di queste settimane sulla politica di flessibilità del bilancio europeo e su quello che ci è consentito fare o meno.
Il nostro è un Paese che non investe su se stesso da oltre due decenni, è un Paese a gravissimo rischio non solo di tenuta ambientale, ma anche idrogeologico, è un Paese che ha infrastrutture che cadono a pezzi e, laddove non ci sono, continuano a non esserci. Un Paese così, che non investe su se stesso, non è un Paese che riesce a essere competitivo. Noi abbiamo bisogno di rimettere in moto l’accelerazione sullo sviluppo, facendo nuovamente investimenti pubblici e dando più forza e più coraggio ai privati perché possano investire anch’essi. Senza investimenti pubblici e adeguati investimenti privati, l’economia del Paese non va avanti.
E perché questo Paese possa essere un forte protagonista in Europa, ha bisogno anche di essere un Paese che sappia dimostrare non solo autorevolezza e credibilità all’esterno, con politiche di rigore, politiche serie, riforme strutturali da troppo tempo annunciate e non sempre realizzate, anzi molto insufficientemente realizzate negli ultimi trent’anni; deve essere un Paese che sappia anche dare un contributo serio e definitivo a questa frattura tra nord e sud che nel corso degli ultimi anni si è accentuata in maniera drammatica.
Su questo, la responsabilità non può essere assunta attraverso uno scambio di accuse tra sud e nord. Quello dell’unità italiana è un problema nazionale, sul quale noi uomini del sud abbiamo una responsabilità importante, ma sul quale abbiamo bisogno tutti, come italiani, di impegnarci nuovamente. Senza recuperare una coerenza meridionalistica di antica memoria, l’Italia da sola non va da nessuna parte.
Soprattutto, è illusorio, in un mondo così globalizzato, dove addirittura l’assenza di una dimensione europea non è sufficiente per dire la nostra sui tavoli ai quali si conta nel mondo, pensare che qualche regione da sola possa farcela. Se non ce la può fare nessuno dei Paesi europei così come sono oggi, immaginiamo che cosa possa fare qualche regione da sola.
Abbiamo, quindi, molto da fare, abbiamo molto da lavorare, ma abbiamo anche la passione per un Paese che sappiamo essere ricco di opportunità, ricco di imprenditorialità, ricco di intelligenze straordinarie.
Io posso dirvi, da imprenditore, come tanti imprenditori presenti in questa sala, che la qualità del lavoro italiano, l’intelligenza e l’imprenditorialità italiane sono un vantaggio competitivo straordinario nel mondo. Non bastano da soli, ma questa è una condizione assolutamente necessaria, senza la quale non si riesce a vincere.
Avendo quel vantaggio, assolutamente necessario, lavoriamo allora per conseguire quelli di complemento, in modo che si possa veramente riaprire una strada di sviluppo, di crescita, di benessere e di equità per noi, per il nostro Paese e per la nostra Europa. Grazie.