Quando a mezzogiorno scocca il segnale della pausa pranzo, dagli altoparlanti esce, a volume non invasivo, l’Allegro del primo Concerto Brandeburghese di Bach. Cinquanta operai, 140 strumenti prodotti all’anno, la Fazioli pianoforti ha festeggiato – senza concerti, senza clamori come da triste obbligo di questi tempi – i suoi 40 anni di vita. L’unico marchio italiano capace di emergere nel mercato internazionale di uno strumento che era nato a Firenze all’inizio del Settecento grazie all’estro sperimentale di Bartolomeo Cristofori, un liutaio stanco del suono uniforme del clavicembalo e alla ricerca di un nuovo strumento capace di suonare, appunto, piano e forte.
Nel corso del tempo quella primogenitura si era smarrita e il dominio tecnico e commerciale era diventato appannaggio esclusivo della grandi case austriache, tedesche, francesi, inglesi, poi americane, russe, giapponesi. «Quando decidi di impegnarti in un progetto, sei uno sciocco se pensi di partire da zero. Ma quanto offriva il mercato non mi bastava. Come utente e come pianista che frequentava i
negozi di pianoforti mi ero accorto che i negozianti badavano molto all’affare ma non alla qualità», racconta il Cavaliere del Lavoro Paolo Fazioli mentre percorriamo i padiglioni della fabbrica.
Nato a Roma, ultimo di sei figli maschi, cresciuto in una famiglia di mobilieri, laureato in ingegneria, diplomato in pianoforte, chiede ai fratelli che gli venga concesso un piccolo spazio all’interno di uno dei capannoni della loro azienda di Sacile per provare a realizzare il suo sogno. «Da musicista, non mi piaceva il suono degli altri strumenti: un suono che non irradiava la luce che immaginavo. Ero molto critico e mi chiedevo per quale ragione noi italiani non dovremmo essere capaci di fare pianoforti magari migliori».
Sulla vocazione alla musica non potevano esserci dubbi: nella casa di famiglia a Roma non c’erano pianoforti e lui, da bambino, dopo le prime lezioni, per continuare ad esercitarsi ritaglia una lunga striscia di legno, disegna gli 88 tasti bianchi e neri e muove le dita sopra quella tastiera muta, immaginando il suono. Quando i fratelli accettano la sua proposta, l’ingegnere musicista si trasferisce a Sacile, una cittadina attraversata dal fiume Livenza, 80 chilometri a nord-est di Venezia, chiamata, per i suoi canali e i parchi delle sue ville, “il giardino della Serenissima». All’orizzonte, i boschi e le montagne delle Dolomiti. E qui inizia la sfida: conosce la musica, conosce il legno, sceglie tre collaboratori decisivi. Pietro Righini, direttore dell’Istituto elettrotecnico nazionale “Galileo Ferraris” di Torino, studioso di acustica; Guglielmo Giordano, fondatore dell’Istituto nazionale del legno del Cnr, creatore di una scuola di tecnologi del legno; Lino Tiveron, famiglia di origine trevigiana, emigrato a Milano «artigiano esperto e calmo, uomo seno e affidabile». La ricerca, la scienza, il gusto per il lavoro: «Ho avuto la fortuna di avere accanto a me delle persone capaci ciascuna di esprimere qualcosa di originale. Con loro, mi sentivo pronto». 1129 gennaio 1981 i primi tre modelli vengono esposti nel salone del Circolo della Stampa di Milano. Due mesi dopo è in programma la fiera musicale di Francoforte. Fazioli parte da Sacile con un furgone e «con il preciso intento di convincere i pianisti a suonare i nostri strumenti e i rivenditori ad acquistarli. La sorpresa nell’ambiente fu grande, perché non era mai accaduto che un costruttore italiano si presentasse alla fiera con un proprio strumento, puntando a un prodotto di alto livello. Per cinque giorni abbiamo avuto lo stand pieno. La prima reazione dei visitatori era sempre la stessa: ma chi è questo, ma dove ha studiato, però guarda come sono fatti bene». Poi i primi concerti nelle sale importanti, le prime vendite, i riconoscimenti. Nel 1987 il debutto alla Carnegie Hall di New York, solista Lazar Berman. Al concerto è presente Harold Charles Schonberg del New York Times, primo critico musicale a vincere il Premio Pulitzer. Schonberg scrive che «è impossibile negare l’impatto di questo bel canto piano». E la consacrazione.
Ingegnere, qui si costruiscono 140 pianoforti all’anno, in Cina ci sono fabbriche che ne producono 100.000. Come resistete? «Con la qualità. I nostri non sono pianoforti da catena di montaggio». Ci sono ancora margini di miglioramento? «Certo! A me piacerebbe capire, anche attraverso spostamenti molto audaci, come cambia il suono negli alti, nei bassi, nei medi. In fabbrica stiamo facendo esperimenti in questo senso. Sappiamo che i nostri pianoforti di adesso hanno un suono più persistente rispetto ai loro fratelli maggiori. Col tempo, per quanto riguarda la lunghezza del suono, i pianoforti migliorano. Nel passare degli anni, il legno diventa più secco, si rilassa e conduce di più, raggiungendo una maggiore efficienza rispetto allo strumento fresco». Il suono che aveva in mente è diventato realtà? «Non volevamo creare un pianoforte che fosse una copia di quelli già esistenti e direi che ci siamo riusciti. Da solo non ce l’avrei fatta, il gioco di squadra è stato decisivo. Il nostro suono doveva essere luminoso, solare, espressivo, persistente, ricco di colori, potente e capace di tante sfumature, cristallino. Ma lo chieda ai pianisti che ci hanno onorato della loro fiducia e ai quali va tutta la nostra gratitudine». Risuona l’Allegro del Concerto brandeburghese di Bach, la pausa pranzo è finita.