Signor Presidente, Autorità, Signore e Signori,
Un saluto di stima e di riconoscenza e un sentito ringraziamento innanzitutto a quanti, donne e uomini, sono stati insigniti oggi dell’onorificenza di Maestro del Lavoro e che hanno testimoniato con la loro vita di impegno nelle fabbriche e nelle realtà produttive il contributo fondamentale che ciascuno di noi può dare allo sviluppo e alla crescita della propria azienda, della propria comunità e del nostro Paese.
Oggi celebriamo qui la Festa del Lavoro. Una ricorrenza solenne per chi crede nel lavoro come momento essenziale per realizzare se stessi e conquistare libertà e dignità, qualunque sia il lavoro che si faccia, qualunque sia la propria condizione sociale e di cittadinanza. È solo con il lavoro che l’uomo nobilita se stesso.
Il lavoro non è solo fondamento della nostra Repubblica. È la precondizione indispensabile di una società giusta, equa e solidale. Proprio per questo, la creazione di opportunità di lavoro, non va messa al centro dell’attenzione solo oggi, ma deve costituire un impegno quotidiano e costante di ciascuno di noi. Soprattutto in un Paese come il nostro in cui, i divari sociali, territoriali e tra generazioni sono così rilevanti e sempre più insostenibili.
Signor Presidente,
nel Suo discorso alla cerimonia di consegna delle onorificenze di Cavaliere del Lavoro che ha tenuto lo scorso 8 novembre, Lei ha riconosciuto agli imprenditori insigniti il ruolo di “traino della nostra economia e parte concorrente, in posizione di rilievo, al benessere del Paese, alla sua immagine nel mondo, alla coesione interna, alla capacità di competere e quindi alle prospettive di futuro”. Nella stessa occasione, Lei non ha mancato di ribadire come il lavoro resti la vera priorità, la bussola di ogni nostro sforzo. Ha sollecitato quindi ancora più impegno, da parte delle imprese, a crescere, investire e creare occupazione e, da parte delle istituzioni, ad agevolare l’attività di intrapresa.
Soprattutto in un momento di così spiccato rallentamento congiunturale che comporta seri rischi per il nostro sistema economico, produttivo e sociale. Sono veramente fiero di rappresentare qui oggi quegli imprenditori che, alla guida di imprese di successo, operano sui mercati internazionali affermando nel mondo le capacità, il lavoro, la creatività e l’orgoglio italiano.
Dobbiamo, tuttavia, essere tutti consapevoli che non basta l’operosità e la capacità di rischio e di intrapresa dei singoli. Occorre uno sforzo collettivo del Paese nel creare le condizioni indispensabili per rilanciare in maniera significativa gli investimenti pubblici e privati, i soli che possano creare vera e buona occupazione.
Gli imprenditori che non investono e non sanno competere sono destinati al fallimento, così come un Paese che non investe su se stesso e non sa competere è condannato a una recessione continua che genera disuguaglianze, disoccupazione ed emarginazione. L’Italia negli ultimi dieci anni si è fortemente impoverita, ma è da ben prima che accumuliamo ritardi di competitività e non riusciamo a realizzare quelle riforme strutturali di cui parliamo da troppo tempo e che sono indispensabili per rimettere in moto il Paese.
La rappresentazione più cruda di questa condizione è la persistente assenza di investimenti esteri diretti volti alla costituzione di nuove realtà produttive e quindi di nuova occupazione. Al contrario, troppo spesso, prestigiosi marchi italiani vengono acquistati e poi i centri decisionali, i nuovi investimenti o addirittura le stesse fasi produttive vengono delocalizzate in paesi più competitivi.
La credibilità del Paese a livello internazionale e la sua competitività sono le precondizioni per rimettere in moto gli investimenti privati. Credibilità e competitività si conquistano solo con un ampio programma di riforme e significativi investimenti pubblici produttivi che nulla hanno a che fare con interventi assistenziali che non possono esaurire l’azione di governo.
Interventi che non solo non risolvono le legittime istanze sociali, ma sottraggono risorse pubbliche alle indispensabili emergenze di bonifica ambientale, di risanamento idrogeologico, di riqualificazione delle nostre aree urbane, di potenziamento dell’ormai inadeguato sistema infrastrutturale.
Per non parlare della assoluta necessità di riprendere a investire in formazione, education, cultura, ricerca, innovazione. Senza tutto ciò, non solo la base produttiva del Paese non crescerà, ma continuerà a contrarsi e gli stessi interventi di politica sociale rischieranno di trasformarsi in interventi del tutto illusori e transitori.
Non si può fare equità e solidarietà senza prima creare sviluppo e ricchezza. La contraddizione che stiamo vivendo è duplice. Da un lato distribuiamo risorse che non abbiamo. E dall’altro, dando priorità a interventi di sostegno sociale rispetto agli investimenti pubblici produttivi, in un contesto a risorse finite, rinunciamo a creare da subito posti di lavoro veri e sostenibili. Il dibattito politico cui assistiamo quotidianamente nel nostro Paese sembra non registrare sufficiente consapevolezza della partita che oggi è in gioco nell’economia mondiale.
La portata della competizione non è più solo tra regioni e né solo tra sistemi-paese ma è tra continenti. Alle forti e crescenti tensioni geopolitiche che contraddistinguono lo scenario mondiale, si sovrappone in maniera sempre più prepotente lo scontro per il controllo dell’economia globale. In questo contesto nessun paese da solo può reggere il confronto. Solo un’Europa più competitiva, più forte e più unita può contribuire all’affermazione dei suoi valori fondanti: la difesa del pianeta, la pace tra le nazioni, il benessere tra i popoli.
L’Italia deve essere un convinto protagonista della costruzione di questa Europa. Se non invertiamo rapidamente la rotta, sappiamo già a quale destino saremo condannati. Continueremo a diventare sempre più marginali, più divisi, più poveri. Non è questo il futuro che noi vogliamo per noi stessi e per i nostri figli. Quegli imprenditori che pur potendo andare nel mondo, dove già operano, continuano a restare in Italia lo fanno perché credono nel nostro Paese. Ma ognuno è artefice del proprio destino. Ciò vale non solo per gli individui ma anche per le comunità.
Signor Presidente,
mai come in questo momento i ceti dirigenti del Paese devono assumersi le proprie responsabilità e devono essere impegnati nel superare le egoistiche convenienze del breve momento. Dobbiamo saper costruire il nostro futuro mettendo in campo non solo idee e progetti, ma anche avendo il coraggio di fare le scelte necessarie. Dobbiamo sapere testimoniare con l’esempio il nostro impegno nel costruire un’Italia migliore. E dobbiamo farlo, facendo forza sulle nostre capacità e sulle nostre possibilità ma, al tempo stesso, consapevoli dei rischi che abbiamo di fronte.
Grazie