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Ghella, che bello finire nel tunnel!

28.03.2021

Essere dentro a un tunnel ma saperne coglierne le suggestioni, le sfide e le potenzialità. Parliamo di gallerie scavate nella roccia, non di psicoanalisi, anche se è questione di punti di vista. In questo caso gli occhi sono quelli di cinque bravi fotografi e i tunnel sono immani opere di ingegneria sotterranea: così possono nascere memorie dal sottosuolo come le campagne fotografiche dei grandi cantieri internazionali di Ghella, azienda specializzata nel settore fin dalla metà dell’Ottocento, guidata dal Cavaliere del Lavoro Enrico Ghella.

La dinastia dei Ghella comincia infatti con Domenico, classe 1837, che dalle cascine milanesi si dirige a Marsiglia – a soli 13 anni – per lavorare come minatore; poi in Egitto, dove si sta ultimando il Canale dl Suez, e infine a Istanbul per realizzare il Tünel di Galata. È il figlio Adolfo a proseguire le sue gesta, e da quel momento l’attività dei Ghella sarà una staffetta tra azzardi tecnologici ed eventi legati alla geopolitica mondiale. Col sogno di realizzare gallerie sempre più ardite, Adolfo – che parla francese, cinese e russo – passa dalle miniere d’oro australiane alle fumerie d’oppio asiatiche (lavora per la Chemins de Fer de l’Indochine); da Hong Kong (costruisce il tunnel di Beacon Hill, dopo che cinque imprese prima di lui avevano fallito) alla Russia zarista e all’Italia, dove partecipa al traforo del Sempione e ai delicati scavi per la metro di Roma a fianco del Colosseo.

Si potrebbe continuare fino alle fondamenta del World Trade Center a New York, ma la storia dell’azienda è limitata a uno solo dei sei volumi editi da Quodlibet, che si riallacciano alla tipologia del libro fotografico aziendale facendo tuttavia sublimare il fine documentaristico in un progetto più ampio. Per il curatore (Alessandro Dandini de Sylva) uno dei
riferimenti è Électricité, commissionato nel 1931 dalla compagnia elettrica di Parigi, per cui Man Ray interpretò la magia della luce artificiale attraverso celebri rayografie. Gli altri cinque volumi sono assegnati ad altrettanti interpreti che affrontano in maniera libera il non facile compito di immortalare un vuoto. Rispetto a una parte consistente della fotografia dell’ingegneria, che prende come soggetto un manufatto di cui si sottolinea l’assemblaggio o la scala mastodontica (si pensi alle sequenze della Tour Eiffel o dei grandi ponti in costruzione), la restituzione fotografica delle voragini di Ghella deve individuare sguardi laterali o complementari per sopperire alla penuria sotterranea di riferimenti, saltando dall’urbanistica al microscopio.
Negli scatti di Alessandro Imbriaco troviamo ad esempio i graffi incisi sulla corazza delle talpe – bestie meccaniche alte come un palazzo e lunghe oltre 150 metri – che sbriciolano la roccia rossa, quasi marziana, di Sydney.

Per scavare il tunnel di base del Brennero si usa invece un metodo old school, ovvero l’esplosivo, raccontato dagli scatti di (nomen omen) Andrea Botto, che da anni fa ricerca sul tema. Il suo sguardo rievoca leggende e conoscenze ancestrali legate ai vulcani; qui la serie fotografica diviene la cronaca di una performance, quella del «fochino» o brillatore di mine che allestisce la deflagrazione. Difficile cogliere quel momento: è necessario applicare principi di esplosivistica alla fotografia e viceversa, oltre che costruire un rifugio in cemento per proteggere la camera.

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