Mi presero in prova alla Amf Gloria di viale Abruzzi nell’inverno del 1945. Il tram per Milano era sempre pieno, così spesso andavo al lavoro in bici, avvolto nel cappotto con cui zio Ambrogio era tornato dalla Russia. Siccome in strada era buio pesto, aspettavo qualche operaio con il lumino a carburo sul manubrio per mettermi in scia. Alla Gloria lavoravo a cottimo e fuorilegge: avevo solo 13 anni» Ernesto Colnago, il più celebre creatore di biciclette del mondo, festeggerà mercoledì i suoi 90 anni con una lezione magistrale alla Bocconi, introdotto da due ciclisti doc: Vittorio Colao, ministro per l’Innovazione e la Tecnologia, e Romano Prodi.
Cosa racconterà agli studenti, Ernesto?
«Dell’apprendistato dal meccanico di Cambiago che aggiustava tutto, dalla bici al trattore: mia madre lo pagava con due chili di farina gialla a settimana. E di quando dissi a mio padre che il saldatore capo mi aveva bruciacchiato la mano perché, per difendermi da un altro operaio ragazzino, non avevo tenuto gli occhi fissi sulla linea di montaggio. Lui mi disse: “Ernesto, nella vita guarda sempre dritto davanti a te”. Non ho mai dimenticato quelle parole».
È vero che ha fondato l’azienda Colnago per odio del posto fisso?
«Dopo tre anni in cui imparai le basi del lavoro ma anche a detestare la catena di montaggio, un incidente in bici mi costrinse a casa per un mese. Chiesi al padrone di lavorare da lì: mi portavano le ruote che io montavo e centravo. Ottenni di essere pagato in materiale: finito il lavoro aggiustavo le bici di contadini, operai e qualche ciclista. Da casa mi spostai presto in una piccola bottega».
Le svolte della sua vita?
«Due. La prima quando il grande Fiorenzo Magni, dolorante a un ginocchio, passò per Cambiago. Aveva le pedivelle allineate male e lo accompagnai in officina a sistemarle. Lui prima non voleva entrare (“Magni non entra in una stamberga come questa” tuonò) poi si convinse. Il giorno dopo, sparito il dolore, mi mandò a chiamare per portarmi al mio primo Giro d’Italia come meccanico. Avevo vent’anni». La seconda?
«La mia prima bici per un campione, Gastone Nencini. Telaio bianco e senza scritte. Il patron della squadra, la Chlorodont, un tedesco, mi disse: “Ma ci scriva almeno sopra il suo nome!”. Gastone ci vinse il Giro d’Italia».
Lei ha trasformato la forma del telaio e rivoluzionato le saldature dei tubi.
«Fino agli anni Cinquanta nessuno riusciva a costruire bici rigide: i tubi erano saldati male e le vibrazioni disperdevano l’energia della pedalata. Ho accorciato le dimensioni del telaio e creato le congiunzioni per renderle scattanti. Erano le bici di Merckx, il più grande di tutti».
Fu anche il primo a osare col carbonio.
«Con l’aiuto di Enzo Ferrari che accettò di ricevermi, lui gigante, io semplice ex meccanico improvvisatosi costruttore. Ferrari mi mise a disposizione il centro studi di Maranello ma soprattutto la sua testa: esaminavamo assieme i miei schizzi e lui intuiva al volo problemi e soluzioni. Era un visionario ma soprattutto un grande ingegnere».
II carbonio venne collaudato alla Parigi-Roubaix del 1996. II fragile carbonio sul pavé, che follia.
«La Mapei portò a Parigi anche un set di bici in alluminio, per sicurezza. Patron Giorgio Squinzi era terrorizzato, io confortato ma fino a un certo punto da calcoli e test di laboratorio. Quando accesi la tv e vidi tre uomini Mapei in testa capii che l’era del carbonio era iniziata». Da qui, dalla finestra del suo salotto, si vede l’azienda da cul sono uscite le bici di tutti i campioni degli ultimi 5o anni. Ora la Colnago non è più sua. «Ho 90 anni, sono rimasto solo: ho dovuto vendere agli arabi di cui purtroppo non conosco visione e progetti. Spero capiscano che il successo di Colnago erano il cuore e l’anima che io e tutti i dipendenti abbiamo sempre messo in ogni bici».
Articolo pubblicato il 07-02-2022 sul Corriere della Sera