Sarà che l’italiano nel mondo viene ancora associato al mandolino, medaglia di bronzo dopo pizza e spaghetti. Sarà che fino a qualche decennio fa gli ultimi superstiti della produzione made in Italy si camuffavano dietro a nomi teutonici (come Steinbach o Clement) per darsi un tono. O che nelle sale da concerto l’egemonia di Steinway e Sons e Bösendorfer sembrava indiscutibile ed eterna. Eppure – anche se la scuola non lo insegna e a volte lo si crede «dono del gallo, del britanno e del germano» (come scrisse il poeta Giambattista Dall’Olio) – il pianoforte è nato sulle rive dell’Arno, intorno al 170o, grazie al genio di un italiano. Il suo nome era Bartolomeo Cristofori (1655-1731), cembalaro padovano al servizio del principe Ferdinando de’ Medici. Circa tre secoli dopo, ci voleva un ingegnere-pianista di Roma, Paolo Fazioli (classe 1944), con un futuro sulla carta già scritto nella ben avviata azienda di mobili di famiglia, per raccogliere il testimone e tentare l’impossibile: costruire un nuovo pianoforte italiano di altissima qualità, per riportarlo tra i giganti.
«Ti rendi conto che vuoi entrare in un mondo in cui ci sono mostri sacri che presidiano il mercato da 200 anni?», lo ammonirà Pietro Righini, uno dei più grandi esperti di fisica applicata agli strumenti musicali. Ma nemmeno lui voleva fargli cambiare idea. E il sogno, dopo estenuanti interrogatori a concertisti, critici, fisici e massime autorità nel campo del legno, ha preso il volo. Una storia che inizia nella Milano anni Settanta e che debutta ufficialmente nel 1981 nel «Giardino della Serenissima»: Sacile (Pordenone). Tra Venezia e gli abeti della Val di Fiemme, che non a caso Antonio Stradivari sceglieva per i suoi violini.
Ingegnere, cosa le faceva credere 41 anni fa che la scommessa potesse essere vinta?
«Prima vorrei chiarire qual era il cuore della sfida. Non si è mai trattato di una gara contro i grandi produttori internazionali, nati molto prima di me. Il sogno è sempre stato un altro: realizzare una certa idea di suono. Ne cercavo uno diverso, italiano, che ci somigli di più». Riuscirebbe a descriverlo? «Solare, brillante, luminoso e ricco di sfumature. In ogni caso unico. L’ho dichiarato al nastro di partenza: non voglio ispirarmi a nessuno. Se qualcuno preferisce quello più scuro e roboante dei pianoforti tedeschi, fa bene a rivolgersi altrove. Di certo però il mercato non ha bisogno di copie».
Pensa di essere riuscito a catturarlo?
«In parte… Ovviamente sono contento perché abbiamo una nostra identità precisa, mala soddisfazione non è mai completa e la ricerca continua a tutti i livelli. Vede, le variabili sono quasi infinite e per questo non c’è un pianoforte uguale all’altro (così come non esistono due pezzi di legno identici, anche se provengono dallo stesso albero). Conta il materiale scelto perla tavola armonica – che è l’anima dello strumento – gli spessori, con differenze inferiori al millimetro, le tecniche di lavorazione, la mano dell’artigiano… ».
Ma per trovare il legno giusto basta una vita?
«È stata una lunga ricerca, prima ancora di fondare l’azienda. Pensi che andammo a valutare anche quegli alberi che neI 2018 sarebbero stati spazzati via dall’uragano Vaia, ma non erano adatti: troppo nodosi. L’abete rosso della Val di Fiemme invece è fantastico. Cresce a 1.500 metri e viene abbattuto quando ha 200 anni. Poi c’è il mogano, ma non cresce in Italia, bisogna importarlo…».
Prima parlava di variabili infinite. Immagino che da buon ingegnere lei tenti di controllarle tutte.
«Certo, ma qualcosa sfugge sempre. Alle spalle ho decenni di esperimenti, errori, imprevisti, scoperte inattese. L’approccio scientifico, l’occhio esperto dei miei tecnici e l’orecchio sono complementari. Ovviamente c’è ancora molto da scoprire e da inventare…».
L’innovazione di cui é più orgoglioso?
«Tutte quelle che non sono riusciti a copiarci…». Ma scusi, non ci sono i brevetti? «Mai brevettare le grandi idee». E perché? «Il brevetto è un’arma a doppio taglio: costa un sacco di soldi, dura solo 20 anni e ti costringe a spiegare tutto alla concorrenza. Il quarto pedale e la scala di risonanza sono già stati imitati. Le altre innovazioni non gliele dico…» (ride).
E vero che i suoi pianoforti vengono fatti suonare di notte, meccanicamente, quando la fabbrica è chiusa?
«Si, facciamo fare il rodaggio alla tastiera, ai martelletti e iniziamo a far vibrare la tavola armonica. A mezzanotte comunque li mandiamo a dormire». Qualità vuol dire per forza produzione limitata? «È inevitabile. Tenga conto che produciamo intorno ai 140,150 pianoforti all’anno. L’obiettivo è arrivare a 200, ma non vogliamo andare oltre. Da quando siamo partiti ne sono nati circa 4.000».
Visto che parliamo di numeri, togliamoci il pensiero: prezzo medio di uno dei suoi strumenti, numero di dipendenti e fatturato?
«Con me lavorano 55 persone, il fatturato è intorno ai io milioni. Mentre i nostri strumenti costano dagli 80.000 ai 170.000 euro. Purtroppo però viviamo un momento pericoloso e forse dovremo rivedere i prezzi…».
Di questi tempi è diventata la domanda di rito: l’ultima bolletta?
«Era sempre stata intorno agli 8.000 euro al mese, ma l’ultima che mi è arrivata è di 42.000. Purtroppo il governo non ha fatto nulla. E se non si corre ai ripari chiude mezza Italia».
Immagino che anche le materie prime siano un problema.
«Certo, è aumentato tutto. Le spese di trasporto, i semilavorati, il legno… Abbiamo delle scorte, ma le stiamo divorando. Avevamo un grande mercato in Russia. E ora non più, per evidenti ragioni…».
E preoccupato?
«Abbastanza, ma guardi che fare impresa in Italia non è mai stato facile…» (ride). Gli ostacoli principali? «Costo del lavoro folle, burocrazia impazzita. E con l’informatizzazione la situazione è addirittura peggiorata: ci sono più carte di prima e una montagna di spese per la cybersecurity». matura…».
Articolo pubblicato il 22 Settembre da La Verità