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In Yemen un chicco di caffè per combattere la guerra civile

07.12.2022

Al centro di un tavolo, tra una voce e l’altra. O su terrazzamenti rigogliosi, lacerati da un conflitto civile. Il caffè è un messaggio di pace. Questo il motivo per cui Faris Sheibani e Fondazione Lavazza lo hanno scelto per sostenere la popolazione yemenita. E, in particolar modo, le donne. Il Paese alla punta più a Sud della Penisola Araba è considerato la culla del caffè nel mondo. Se la pianta è originaria dell’Etiopia, nella zona di Kaffa, la nascita della bevanda viene fatta risalire allo Yemen occidentale, dove, nel 145o, i mistici Sufi bevevano un liquido nero per mantenere la veglia durante le meditazioni notturne. Nel corso dei secoli, gli europei hanno plasmato il mercato mondiale: le esportazioni yemenite sono crollate al 6 per cento nel i800, arrivando allo 0,1 odierno, pur mantenendo una diffusa fama legata al pregio del caffè. Con la primavera araba iniziata nel dicembre 2oio e la lotta interna nel 2o15, questo territorio, già tra i più poveri del Medio Oriente, vive una delle peggiori crisi umanitarie in corso al mondo. La transizione politica avrebbe dovuto portare stabilità, ma la situazione è precipitata. Oggi sono 20 milioni i bisognosi di assistenza umanitaria, cui si sommano i due milioni di bambini che necessitano di cure per malattie gravi da malnutrizione.

«II progetto è figlio del conflitto: la guerra lo ha reso urgente», racconta Faris Sheibani, Fondatore e Ceo di Qima Coffee, una rete produttiva di caffè nata nel 2016. «Muoversi sul territorio è stato difficile anche per le pressioni ricevute dalle due fazioni, a Nord e a Sud. Per evitare ostacoli abbiamo scelto di essere totalmente apolitici. Anzi, di usare questa bevanda come antidoto a una questione politica problematica».

Niente beneficenza Obiettivo finale: riportare lo Yemen a un ruolo di prestigio tra i produttori di caffè con un progetto lontano dal concetto di beneficenza, ma mirato a fornire alla popolazione gli strumenti per lavorare e vivere in maniera stabile. «Inizialmente, ho ascoltato le opinioni, riguardo la mia idea, dei numerosi caficoltori disseminati nel Paese», aggiunge Sheibani. «Oggi la rete è cresciuta. Dai trenta che erano, ora sono più di 2.600 in 53 nuclei. Di grande aiuto è stata la Fondazione Lavazza, che si è impegnata in Yemen, durante il conflitto, quando nessun altro voleva farlo». Nel 2020 ha avuto il via la collaborazione con la Fondazione Qima.

«II territorio era per noi particolarmente attrattivo, con un caffè prodotto in piccole quantità, ma dalla qualità elevatissima e dalla storia molto antica», spiega Giuseppe Lavazza, vicepresidente Lavazza Group. «Abbiamo visto comunità per cui questo lavoro, svolto in condizioni sostenibili, poteva rappresentare una strategia di cambiamento».

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Articolo pubblicato il 30 novembre da Il Corriere della Sera Pineta 2030

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