Articolo pubblicato nella rivista n.3/2023 di Civiltà del Lavoro
Abbiamo tanti scienziati, piattaforme di ricerca, navi da ricerca che ogni giorno, ogni minuto, ogni anno, attraversano i mari e raccolgono dati e informazioni che sono essenziali per cercare di capire che cosa sta succedendo nel mare oggi. Qual è il problema? Che in una sala come questa oggi, la maggior parte di noi non sono scienziati e la stessa percentuale si ripropone anche nel resto del mondo. E il mare è grande e gli scienziati non sono abbastanza per raccogliere tutti i dati di cui abbiamo bisogno per cercare di conoscerlo e di conseguenza proteggerlo”. Parte da questa considerazione dell’ecologa marina Arianna Liconti la seconda tavola rotonda del convengo di Genova, dedicata alla tutela del mare.
Formatasi nel Regno Unito, la studiosa si è trasferita tre anni fa a Genova per dedicarsi a progetti di ricerca, divulgazione e conservazione focalizzati sul Mare Mediterraneo. È una convinta sostenitrice della scienza partecipativa, che si basa sul contributo che i cittadini possono dare alla tutela dell’ambiente durante semplici attività quotidiane o di svago. Un esempio è il monitoraggio della plastica presente sulle spiagge oppure la raccolta della stessa effettuata usando minimante, ovvero retini da campionamento di dimensioni ridotte che possono essere adoperati da chi va in kayak.
“Sicuramente serve un po’ di formazione – ha spiegato Liconti – perché i dati sono comunque dati scientifici. Nel caso di questa manta, deve essere trainata a una certa velocità, con un transetto di mezzo miglio in una determina area identificata precedentemente dagli scienziati. Noi facciamo una formazione precedente e poi si fa una vera e propria campagna di ricerca”. “E la risposta c’è dal punto di vista civile?”, ha chiesto Cartolano. “C’è tantissima risposta – ha spiegato l’ecologa marina – perché la maggior parte di queste persone vanno per mare perché le fa stare bene e vogliono dare qualcosa in cambio”.
Con il secondo ospite, il presidente e Ceo di Filtrex nonché Cavaliere del Lavoro Luigi Vincenzo Riolo, il fulcro della discussione si è spostato sul problema degli scarichi di acqua di zavorra da parte delle navi. “Al mondo in un anno si scaricano circa sette miliardi di tonnellate di acqua – ha affermato Riolo – un volume pari a quello del Lago di Iseo”. Non si tratta di acque pulite ma spesso cariche di zooplancton e fitoplancton, come accade nei mari asiatici o del Nordeuropa. Il fenomeno della mucillagine nel mare Adriatico di 34 anni fa aveva proprio questa origine, “dovuto alla migrazione di microorganismi”.
Oggi non accade più perché secondo le norme imposte dall’Imo, a partire dal 2017, tutte le navi sono obbligate a scaricare in mare acque esenti da microorganismi vivi. “Quando si è partiti c’era una grande confusione un po’ in tutti – ha ricordato Riolo – perché non si sapeva cosa si dovesse fare e se era giusto ucciderli tutti o almeno sterilizzarli. Oggi cosa facciamo? Prendiamo dell’acqua di mare dove sono contenuti questi microrganismi, li filtriamo e scarichiamo nel mare di origine cercando di toglierne il più possibile. Quello che rimane verrà poi trattato con sistemi di disinfezione, che possono essere lampade UV o elettro-colorazione”. “L’ideale – ha aggiunto – sarebbe stato trovare un filtro che li togliesse al 100%, ma questo è impossibile”. In ogni caso il risultato è sorprendente. “Scherzando, dico che è la marmitta catalitica con cui puoi entrare in città”, ha detto Riolo.
Altri progetti che sono stati menzionati dal ceo di Filtrex riguardano l’alimentazione a metanolo delle navi oppure lo studio di soluzioni a emissioni zero con prodotti ricavati da residui di gomme e plastiche. Per non dimenticare l’impegno dell’azienda nella ricerca per la produzione di acqua potabile a partire da quella del mare. “Con la desalinizzazione – ha concluso – siamo in fase avanzata”. L’intervento di Alessandro Leto, direttore della Fondazione Water Academy SRD, ha preso spunto dal titolo del convegno “L’acqua, l’oro di sempre”. Che cosa hanno in comune questi due elementi? La scarsità, che “determina una contesa, una corsa all’acqua, soprattutto se consideriamo che funzione dello sviluppo e della crescita economica è l’acqua dolce”, ha sottolineato Leto. Questa è presente sul pianeta nella misura del 3%, in parte imprigionata nei ghiacciai, ma in ogni caso troppo ridotta per una popolazione in aumento.
“Se non siamo in grado, per una popolazione che su scala mondiale si prevede che possa arrivare a 9 miliardi di persone nel 2050 e con una produzione di energia crescente anch’essa in maniera esponenziale, di trovare soddisfazione nell’ambito delle risorse disponibili idriche di acqua dolce – ha spiegato il direttore della fondazione – dobbiamo per forza rivolgerci a un’alternativa”. E questa coincide con il mare. È una soluzione percorribile? Sì, ma a patto di cambiare paradigma e di passare dal concetto di talassocrazia, che vede nel mare una piattaforma per lo scontro tra potenze, a una visione del mare “come soggetto attivo, portatore di vita, elemento essenziali che garantisce gli equilibri vitali di ogni forma”, ha affermato Leto. In questo passaggio è determinante la responsabilità individuale, quel “noi tutti” – ha spiegato – che chiama in causa ciascuno di noi.
Alessandro Leto ha poi ricordato una pietra miliare della cultura ambientale, ovvero il rapporto “I limiti dello sviluppo”, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, un network di esperti fondato dall’italiano Aurelio Peccei, che già 50 anni fa aveva individuato le disfunzioni di una crescita economica non coordinata a livello globale. E in un momento in cui le tensioni geopolitiche si moltiplicano Leto ha richiamato nel suo intervento “il ruolo degli italiani”. “Questo è il momento in cui bisogna costruire ponti e non muri – ha affermato –. Per fare questo ci vuole un’attitudine alla persuasione che è completamente diversa dall’attitudine alla coercizione e all’imposizione.
Noi su questo siamo bravissimi. C’è un desiderio di Italia e di italiani, ma non banale, non per le suggestioni più superficiali del made in Italy, ma perché ci sono motivazioni addirittura consustanziali nel modo in cui gli italiani si rapportano con il prossimo e che sono state brillantemente definite da un grande economista, Stefano Zamagni, il quale è stato una delle anime della teoria dell’economia sociale di mercato fortemente targata made in Italy. Noi italiani – ha concluso Leto – nelle relazioni con gli altri siamo capaci di dare senza perdere e di prendere senza togliere”.
L’ultimo a prendere la parola nella seconda tavola rotonda è stato Antonio Di Natale, Segretario generale della Fondazione Acquario di Genova, che ha illustrato il percorso che il prossimo 18 settembre porterà a presentare all’assemblea delle Nazioni Unite la bozza della Carta dei diritti degli Oceani. Un percorso partito proprio dal capoluogo ligure, due anni fa, insieme con le istituzioni cittadine, gli organizzatori della celebre Ocean Race e un insieme di enti e stakeholder internazionali. “La cosa più importante, e di cui pochi si rendono conto, è che noi non abbiamo il Mediterraneo, l’Atlantico, il Pacifi co ed altro – ha spiegato Di Natale –. Noi abbiamo un unico oceano, quello mondiale, perché tutte le acque sono interconnesse, i sistemi di circolazione sono interconnessi e questo ci dice che dobbiamo gestire l’oceano in modo univoco”.
Da qui deriva una scelta fondamentale. “Il cambio di paradigma è attribuire all’oceano i suoi diritti – ha affermato –. Non è un concetto estremamente nuovo, ma lo è da un punto di vista giuridico in sede Onu ed è quello che è venuto fuori dal Genova Process”. Ci sono quindi dei principi dai quali non si può prescindere “perché ne patirebbe la salute dell’oceano e ne patiremmo noi, immediatamente”. Bisogna infatti “mantenere il funzionamento del sistema oceano”, che rappresenta “il Life Support System dell’intero pianeta”. “È là – ha aggiunto il segretario generale della Fondazione Acquario di Genova – che occorre intervenire, affinché non si possano mai modificare le circolazioni oceaniche, non si possano modificare i maggiori ecosistemi, non si possa intervenire in modo scriteriato sui fondali degli oceani e, soprattutto, occorre considerare che non si potrà più mettere in mare nessun inquinamento persistente”.
Il 18 settembre rappresenterà, dunque, un punto di arrivo e un punto di partenza allo stesso tempo. Da quel momento, infatti, prenderanno il via le negoziazioni. “È chiaro che un percorso alla Nazioni Unite non è facile, non siamo dei sognatori – ha concluso Di Natale –. Potrebbe non essere breve. L’obiettivo è avere una Dichiarazione universale dei diritti dell’oceano entro il 2030”.