(di Vittorio Colao, Cavaliere del Lavoro, Vice Chairman EMEA di General Atlantic, consigliere di amministrazione di Verizon e dell’Universita’ Bocconi)
La pandemia e il lockdown hanno portato le imprese a digitalizzarsi rapidamente, dimostrando che è possibile lavorare con facilità da remoto: la videoconferenza è infatti ormai una normale modalità di lavoro e di incontro. Nel frattempo, sono state avviate trasformazioni organizzative che hanno generato sia effetti positivi, sia rischi sulle competenze e sulle risorse umane.
In questo nuovo scenario, quali devono essere le priorità per l’organizzazione del lavoro delle imprese?
Sicuramente sono indispensabili infrastrutture e processi digitalizzati in grado di essere accessibili da remoto. I dipendenti e i clienti si aspettano però la stessa agilità e rapidità dei migliori servizi commerciali usati quotidianamente, mentre molte aziende sono ancora lontane da questa semplicità. “Cloudificazione” di infrastrutture, automazione di procedure, misurazione rigorosa dei livelli di servizio sono elementi necessari per sostenere le nuove organizzazioni. Le aziende si trovano a dover migrare rapidamente sistemi e applicazioni a cloud scalabili e a costi variabili e ottimizzare in continuo i flussi digitali.
Scegliere il “flexible working”, invece del “working from home” è un altro punto fondamentale. Permettere il lavoro da remoto è un valore da preservare, ma quello da casa ha anche controindicazioni inizialmente sottostimate. E non mi riferisco solo alla erosione di produttività, oggi denunciata da recenti studi. I veri rischi ricadono su temi quali il trasferimento di competenze ai più giovani, lo sviluppo dell’innovazione, la crescita individuale e le capacità relazionali, il rapporto di appartenenza e la cultura aziendale. Tutti inevitabilmente indeboliti dal lavoro da casa. Certamente la gestione flessibile di riunioni o incontri ha vantaggi ambientali da mantenere, così come dobbiamo continuare a permettere connessioni remote per esigenze personali. Ma non dobbiamo prospettare ai giovani un modello di “life balance” comodo ma che riduca o rallenti le loro opportunità di sviluppo.
Pagare meglio e accelerare le carriere dei giovani rappresenta un’altra delle priorità. Le imprese italiane, in media, non pagano bene i migliori neolaureati che per questo si trasferiscono all’estero per guadagnare dal 40 all’80% in più. Il risultato è che ci ritroviamo un saldo netto laureati negativo che sta cominciando a indebolire il sistema italiano. Imprenditori che giustamente vogliono comprare sempre i più avanzati macchinari non cercano invece di assumere i migliori giovani, pensando che comunque uno vale l’altra.
Occorre differenziare di più gli stipendi dei laureati migliori e offrire progressioni professionali nei primi anni post-laurea che motivino le ragazze e i ragazzi più intraprendenti. Infine, stages e contratti temporanei dovrebbero essere usati solo per esigenze di breve durata e non come posizioni dì entrata a basso costo e ridotto investimento aziendale.
Negli ultimi anni sembra esserci una grande difficoltà a trovare neolaureati tecnici e specializzati: il numero assoluto è obiettivamente basso in Italia. Nel mondo anglosassone, invece, vengono assunti regolarmente eccellenti laureati in storia nelle banche e filosofi in azienda, in quello tedesco e nordico ragazze e ragazzi europei ed extraeuropei. Risorse umane diverse – nel genere, negli studi, nell’origine etnica, religiosa e famigliare – sono più complicate da formare e integrare ma costituiscono una straordinaria ricchezza di sensibilità e idee.
Mi ha colpito che dei 38 partecipanti a un progetto di “Deep Data for Healthcare” della Stanford School of Medicine quasi metà sono donne e 25 hanno nomi di apparente origine non europea/anglosassone. Assumere risorse a elevata diversità richiede certo investimenti iniziali e molto lavoro di integrazione, ma la diversità a lungo irrobustisce le organizzazioni.
Fondamentale infine per l’organizzazione delle imprese in questa fase è il coinvolgimento dei giovani. Aziende digitalizzate e flessibili richiederanno modelli gestionali meno formali, con più valore attribuito all’innovazione e alle competenze recenti rispetto alla gerarchia. Le migliori aziende comunicano molto internamente e coinvolgono nelle decisioni i livelli di competenza più giovani, non solo i dirigenti di seniority alta. Organizzazioni più remotizzate hanno bisogno di una cultura di ingaggio diretto da parte dei vertici con il personale, sostenuta da una cultura dedita all’ascolto, più presa di rischio sui giovani, più co-creazione. La tecnologia aiuta con piattaforme ad hoc, ma l’impegno del top e middle management farà la differenza.
In definitiva la vera sfida rimane quella di sempre: plasmare la cultura di organizzazioni veloci e efficienti, in cui le persone trovino piena soddisfazione personale e realizzazione professionale a ogni livello. Utilizzare la tecnologia per ridurre costi, risparmiare tempi e spostamenti e snellire le organizzazioni è ormai imprescindibile, ma la tecnologia sarà un vantaggio competitivo e durevole solo per chi saprà rinforzare culture aziendali centrate sulla valorizzazione delle competenze, dell’innovazione e del merito, specie nelle persone più giovani.