Marco Palmieri, 57 anni, fondatore e presidente di Piquadro, gruppo di pelletteria famoso in tutto il mondo, risponde al telefono dal Corno alle Scale, Appennino Tosco-emiliano, sulle cui piste da sci negli anni ’70 mosse i primi passi un giovanissimo Alberto Tomba. Palmieri, non è lì per svago.
«Con alcuni amici abbiamo preso gli impianti in concessione. Il mio amico Flavio Roda, presidente della Federazione italiana sport invernali, da anni mi diceva: prima o poi al Corno servirà il tuo aiuto. Pensavo scherzasse, e invece eccomi qua».
Faticoso?
«Pensavo mi sarebbe stato chiesto solo di assicurare la copertura economica. Invece con mio figlio ci siamo ritrovati a gestire le programmazioni, i piani di sviluppo, a implementare le prenotazioni online, badare alla neve artificiale».
Il gruppo Piquadro, che comprende The Bridge e la maison francese Lancel, non le dava già un bel daffare?
«L’ho fatto per la montagna».
Cosa le ha dato la montagna per meritare tanta cura?
«Ci sono nato, e qui ho fondato Piquadro».
Un gruppo da 150 milioni di fatturato e 174 negozi in tutto il mondo, ma con sede a Gaggio Montano, 5mila anime perse tra curve e tornanti…
«Tutti mi dicono: avresti fatto meglio altrove. lo dico: sicuri che non avrei fatto peggio?».
Eppure in montagna tutto è più difficile.
«Tutto: trasporti, connessione, servizi. Ogni mese ho dipendenti che mi dicono: Marco, mi sono stufato, vado in città».
Come se ne esce?
«Ci vogliono investimenti strutturali. lo in montagna ho costruito un gruppo da un migliaio di dipendenti. Al Corno alle Scale posso implementare i pagamenti online. Ma poi servono strade, infrastrutture, meccanismi di crescita diffusa».
Altrimenti la montagna, da un giorno all’altro muore.
«Non da un giorno all’altro, ma lentamente. II che è molto peggio: è un processo che incide in negativo sulla qualità della vita di migliaia di persone».
In più ci si mettono i cambiamenti climatici.
«Cerchiamo di fare il nostro. Piquadro é carbon neutral. Ma anche nel campo della sostenibilità succedono cose assurde».
Del tipo?
«Vede, io lavoro la pelle di animali che vengono allevati dalla filiera alimentare, a cui tolgo un rifiuto, che riciclo e valorizzo. Però sono associato a quelle filiere, dunque risulto più inquinante di un produttore di nylon, il cui prodotto nasce dal petrolio. Perché accade? Forse perché fa comodo tutelare le produzioni sintetiche a discapito di quelle naturali?».
Il suo legame con la pelle è antico.
«Alla pelle devo tutto».
Una tradizione di famiglia?
«Nulla di quello che faccio parte da una tradizione familiare. E non credo valga che mia mamma avesse una profumeria, che vendeva anche qualche oggetto in pelletteria».
La sua passione, dunque, da dove nasce?
«Ho iniziato durante l’università a realizzare per gioco, con mia moglie, dei piccoli prodotti in pelletteria che poi rivendevamo. E ho scoperto una cosa».
Che cosa?
«Che la pelle veniva lavorata con un sistema che ne moltiplicava costi e sprechi. Studiavo ingegneria informatica, così ho sviluppato hardware e software di un macchinario che si rivelò di grande valore nell’ottimizzare la produzione».
Fu il suo primo affare?
«No, il primo è arrivato quando facevo l’istituto tecnico. Un’azienda vide un mio progetto, mi chiese se volessi cederlo e a quanto. Non ne avevo idea. Risposi: faccia lei… Fece lui, e a me, che ero abituato alla paga settimanale di mio padre, sembrò una cifra enorme».
Non aveva ancora un gran fiuto per gli affari…
«(ride) Sono andato avanti per anni con il ‘faccia lei’. E mi fa sorridere quando oggi si presentano da me giovani startupper con idee la cui validità è tutta da dimostrare, ma le loro pretese sono lucidissime».
In realtà, però, di startup ne ha finanziate un mucchio.
«Continuo a farlo. Alcune funzionano, altre no, ma è giusto così. Bisogna rischiare».
Lei ha rischiato?
«Di continuo. L’ultima volta qualche anno fa, quando rilevammo la Maison Lancel, marchio centenario della moda francese. Fa un certo effetto quando ti presenti a Parigi al loro cospetto, e tu invece arrivi da Gaggio Montano».
Li avete spaventati.
«Con tutto il rispetto ci siamo spaventati di più noi, visto che l’azienda perdeva 40 milioni. Quest’anno raggiungeremo il break even dopo solo quattro anni. Sono soddisfazioni».
Come ci siete riusciti?
«Reinventandone stile e posizionamento. Rivolgendoci a una clientela più giovane. E portando la produzione nei nostri stabilimenti toscani».
E stato difficile convincerli?
«Ogni loro diffidenza si è sciolta quando gli stilisti francesi hanno mandato il primo disegno a Firenze. Dopo 4 ore hanno ricevuto la foto di un prototipo. Si sono emozionati».
A proposito di prototipi. E tornato sul mercato in versione 2.0 il vostro storico modello di zaino Corner, mentre il primo in assoluto, Modus, non è mai uscito di produzione.
«Furono scelte vincenti».
Articolo pubblicato il 29 novembre da Nazione Carlino