La via della seta del Cavaliere del Lavoro Mario Boselli è partita nel 1586 da Garbagnate Monastero dove i suoi avi fondarono una fabbrica serica ed è arrivata in Cina nel 2017 con la nomina alla presidenza dell’Istituto italo cinese.
Una storia tanto antica e importante che cosa le ha lasciato?
«Eredità così lontane nel tempo sono un onore ma anche un onere. L’onore di portare avanti una tradizione di gente che per più di 400 anni ha fatto mestieri di rango legati al territorio. E oneri perché i pesi e i condizionamenti sono notevoli. Le lunghe storie sono impegnative in tutti i sensi».
Il suo curriculum occupa la pagina di un giornale.
«Si, vista l’età che ho, ma c’è una grande sproporzione tra la parte alta dove ci sono gli incarichi attuali e quelli del passato».
Quelli attuali non sono da poco, a cominciare dalla presidenza della Fondazione Italia Cina.
«Precisazione doverosa, oltre a essere presidente della Fondazione da meno di un anno, da più tempo sono anche presidente dell’Istituto italo cinese. Il fatto di avere queste due presidenze permette di avere rapporti a tutto campo con la Cina. L’Istituto si occupa di arte e cultura mentre la Fondazione di tutto il resto: parliamo di business, rapporti istituzionali, sostegno alle imprese. Sono complementari. Di fatto ho preso il posto di Cesare Romiti, l’unico ad avere entrambe le cariche, uno dei periodi più proficui che oggi sto cercando di portare avanti grazie a questa unitarietà di rappresentanza».
Come sono i rapporti tra i Paesi?
«Dal mio punto di vista molto buoni. È un matrimonio prima ancora che d’amore, d’interesse. La Cina è l’unico Paese ripartito dopo la pandemia. Il loro lockdown all’inizio dei 2020, terribile, ha fatto calare il pil del 6,8% ma a marzo hanno riaperto in gran parte: il pil del secondo trimestre è aumentato del 3,2%, nel terzo del 4,9% e nel quarto e ultimo trimestre dell’anno, del 6,5%. Una cosa clamorosa. Quello annuo segna un +3,2%. L’unico grande Paese al mondo ad avere un Pil positivo. Questo ha trainato una serie di situazioni positive, come per esempio la moda italiana e quella francese che subito dopo il primo trimestre nefasto hanno cominciato a vendere alla grande in Cina. Certe aziende hanno addirittura recuperato le situazioni pre Covid. E questo non vale solo per il lusso e per la moda. La Cina, nel breve, è l’interlocutore economico più interessante per i Paesi occidentali che vogliono sviluppare le loro economie».
Per le pmi non è facile iniziare rapporti commerciali con la Cina. «Corretto. Non è facile soprattutto per le imprese piccole e medie perché andare in Cina significa avere una certa attrezzatura culturale e organizzativa, parlare le lingue, sapersi muovere. Prima del Covid era più semplice. Per entrare nel Paese bastava un visto che il consolato rilasciava automaticamente. Oggi la Fondazione ItaliaCina è ancora più importante quale supporto per le aziende».
Come aiutate queste aziende? Non dovrebbe essere il governo a dare una mano?
«Una cosa non esclude l’altra. Il nuovo presidente dell’Ice, Carlo Ferro, grazie alle sue molteplici presenze in Cina, sta dando un grande contributo alla promozione del made in Italy. Ma anche l’ambasciatore italiano in Cina, Luca Ferrari, sta lavorando molto bene, interpretando in modo moderno la politica estera e stando molto vicino alle imprese. Anche lui fa parte del consiglio della Fondazione Italia Cina».
Molte aziende vogliono arrivare in Cina con i loro prodotti, ma altre hanno messo basi aprendo aziende in Cina anche per ovviare al costo del lavoro in Italia.
«La mia valutazione oggi è che val la pena di andare a produrre in Cina per vendere in Cina. È un plus avere basi produttive là o nell’area Asia, Corea del Sud, Giappone, Filippine, Indonesia. Ma vale sempre meno l’altro schema, cioè far produrre in Cina per reimportare da noi. Due le ragioni: primo, perché la Cina sta diventando meno competitiva per il costo del lavoro. Ha abbandonato certe produzioni e delocalizzato altre spostandole in Vietnam, Pakistan, Cambogia. La seconda ragione sono i costi di trasporto. Con il Covid sono aumentati i noleggi dei container per cui non vale più la pena. Produrre là per accedere al loro mercato, non per portare indietro la merce».
Lei è presidente di Prestitalia (Ubi-Gruppo Intesa San Paolo) anche per la sua grande esperienza nei vari cda delle banche italiane. Di che cosa si tratta?
«Del prestito al consumo privato. In questo momento trovo sia importante anche moralmente. Prestitalia deve diventare un punto di riferimento per le famiglie italiane, per gli individui. Dobbiamo favorire l’inclusione finanziaria anche alle fasce più deboli. Oggi possiamo dare una mano a tutti. Essere vicino ai singoli è una buona finalità. Certo, non è gratis. Siamo leader di mercato nella cessione del quinto dello stipendio».
Non è facile, in questo momento, avere aiuti dalle banche che vogliono garanzie. Voi aiutate chi ha uno stipendio, e gli altri?
«Per tutti gli altri casi si esamina la situazione del singolo individuo. Sono stato nominato il 22 dicembre 2020 e quello che ho apprezzato da subito è avere trovato gente già sensibilizzata al tema, molto professionali, non con il coltello tra i denti, persone di buon senso e buona volontà. Stiamo valutando un modo di procedere più umano».
Lei è stato il presidente storico della Camera nazionale della moda italiana. Con lei è nata una definizione rimasta scolpita nella pietra: «Il bello e il ben fatto».
«Frase che creai nel 2008 perché mi credevano presidente dell’alta moda italiana e io cercavo di spiegare che in realtà ero presidente del prêt-à-porter di alta gamma che rappresenta il bello e il ben fatto. Non prodotti fantasmagorici che fanno parlare, cari e poco fruibili, ma qualcosa di moderno ed elegante per una donna di classe che però deve vivere in modo più coerente con i tempi. È stato registrato alla Siae l’8gennaio 2008. Questo “bello e ben fatto” è diventato di uso comune, tanto che anche Confindustria lo usa per definire tutta una serie di prodotti del lifestyle italiano. Lo declino con le tre effe: food (anche vino), fashion e furnishing, quindi il design. In Cina, dove sono andato più di 5o volte, mi sono sentito dire sovente che il nostro Paese è caro, senza materie prime, dove le strutture sono quello che sono, eppure siamo i primi al mondo in qualità e creatività. E io lo spiegavo con il bello e ben fatto».
La filiera italiana resta la migliore al mondo?
«Si. Basta guardare quanti francesi vengono a produrre in Italia, quanti acquistano aziende italiane o affidano le produzioni alle subforniture. Questa è la prova provata anche dalla bilancia commerciale così favorevole non solo per l’esportazione di prodotti finiti ma anche di semilavorati».
Perché la politica si occupa cosi poco del settore della moda?
«La trovo una forma di strabismo perché vedono una realtà che è quella dei big name, grandi brand che sono sempre sui giornali per successi imprenditoriali, aperture di negozi, iniziative a destra e a manca. Non vedono con l’altro occhio la piccola e media impresa che è in grave difficoltà».
I numeri del comparto moda?
«Gli scenari di recupero del 2021 sono due rispetto alla caduta del 2020. Il fatturato moda, tenendo conto anche dei settori pelle pelletteria, calzature, gioielli, occhiali, nel 2019 è stato di go miliardi 237 milioni, nel 2020 di 65 miliardi 422 milioni: -28%. Ci sono differenze abissali tra i grandi nomi, dove si parla di cali tra i16 e l’ 8 %, e il tessile con -30/40%. Il primo scenario, quello favorevole, è di un aumento del 15,5% che porterebbe quei 65 miliardi a 75 miliardi e 5oo milioni, quello meno favorevole a 69 miliardi e 350 milioni. Tutto dipende dalle vaccinazioni, dalle zone rosse e dalla fine di questa pandemia».
Ora le sfilate sono digitali: come vede il futuro della moda?
«Carlo Capasa (attuale presidente della Camera della moda – ndr), nelle interviste rilasciate dopo la Milano Fashion Week, ha parlato di 45 milioni di visualizzazioni delle sfilate, 27 milioni delle quali in Cina. La metà. Di quei 45 milioni, quanti sono i curiosi e quanti gli addetti ai lavori, ovvero buyer e stampa? Più del 90% sono curiosi. Se i curiosi, che sono evidentemente consumatori finali, vanno a vedere le sfilate, male non fa. Guardano le collezioni che saranno nei negozi – se i buyers le compreranno – sei mesi dopo. Però è un altro film. Se non distinguiamo il sell in dal sell out non andiamo da nessuna parte. Bisogna avere rispetto dei numeri che poi vanno analizzati».
Il mondo è in continua evoluzione.
«Già. E sono molto d’accordo con Armani che dice che si dovrebbe produrre meno e meglio. Meno perché si produce più qualità, gli abiti durano di più e questo è il miglior contributo al tema della sostenibilità. Come si può parlare di sostenibilità con abiti che costano 3o, 4o, 6o euro? Si tratta di capi usa e getta, con poco valore intrinseco di tessuti che costano a produrli e costeranno a smaltirli. Quando ci sono certi costi, la sostenibilità va a farsi benedire. Il made in Italy sarà rappresentato dal concetto Armani. Il resto, quindi prodotti fatti fuori dall’Europa, saranno meno virtuosi e venduti più facilmente online. E qui si arriva all’altra grande modifica. Lo sviluppo dell’online lo vidi già dieci anni fa in Cina e dissi, tornando, che era là il futuro non solo per le vendite ma anche per le modalità di vendita. Il Covid ha incrementato ulteriormente il trend delle vendite online con qualsiasi device. Ma questa tendenza dell’online avrà limiti che ho già sperimentato di nuovo in Cina. Il cinese ricco, abbiente, che compra il prodotto italiano e francese del prêt-àporter di alta gamma, è interessato al prodotto ma in particolare all’esperienza di acquisto di quel prodotto. E può avere questa soddisfazione, questa gratificazione solo in un modo: andando nel negozio fisico. La mia visione, come viene definita in Cina, è “020”, online to offline. Il mio futuro è integrazione tra fisico e online, non solo online».