Il salottino d’attesa della Sabelt, a Moncalieri, nella periferia di Torino, può essere considerato la retroguardia di un Futurismo che da oltre cento anni aspetta l’occasione per tornare a far sentire la voce. Qui sono esposti i sedili per auto di alta gamma e ai muri, sotto teca, sono appese le tute di piloti di Formula 1. Aleggia il mito della velocità che non è più esaltazione e disprezzo del pericolo, come agli inizi del Novecento, piuttosto è celebrazione della sicurezza, elemento fondamentale di quella che si può definire “modernità consapevole”. Sono due i rami in cui si distingue il nome Sabelt: I sedili alla guida di auto sportive, appunto, e le cinture di sicurezza, due oggetti dove la specializzazione esalta le competenze laboratoriali. Il marchio nasce cinquant’anni fa, nel 1972, per opera di Piero e Giorgio Marsiaj, due fratelli d’origine veneta, che fino ad allora si erano dedicati ad attività commerciali e solo in quell’anno erano riusciti a ottenere, da un’azienda inglese, la licenza per produrne cinture di sicurezza in Italia. Il nome con cui battezzarono la loro fabbrica deriva da un acronimo: Safety + belt.
La tecnologia espone ai rischi, ma deve assumersi anche l’onere di proteggere da essi. Potrebbe essere questa la filosofia che da quel giorno governa l’impresa e c’è da essere sicuri che, se Gabriele D’Annunzio mettesse piede qua dentro, troncherebbe ogni disquisizione grammaticale sul sesso delle automobili – è stato lui a farle passare dal genere maschile a quello femminile – e si divertirebbe a provare la comodità dei sedili che stanno in bella mostra nel salottino, radunati in cerchio, neri o a tinte sgargianti, con la scocca intera oppure con lo schienale reclinabile, a testimonianza di quel pezzo di storia aziendale già compiuto (uno di essi porta la firma di Pininfarina) o pronti per essere montati sul modello recente di una Aston Martin o di una McLaren, di una Porsche, di un’Audi. Sabelt è la sola azienda al mondo in grado di assicurare il perfetto equilibrio tra leggerezza e affidabilità. Questo contribuisce a renderla un’eccellenza italiana e le conferisce una sorta di primato nei settori di più sofisticata competitività, come la Formula 1, dove sette team su dieci, tra cui Ferrari e Red Bull, si riforniscono delle cinture. «Tutto ciò che è difficile mi interessa»: dichiara con voce sicura Giorgio Marsiaj, presidente e amministratore delegato (coadiuvato dai figli Gregorio e Massimiliano), presidente Unione Industriale Torino.
Lo slogan che esce dalla sua bocca racchiude il segreto grazie al quale avvicinarsi a quella sottilissima linea di confine in cui ridurre il peso di un’autovettura lanciata su un circuito (e dunque incidere sul risparmio di carburante e di tempo, aumentare le prestazioni) non deve sottrarre nulla al parametri della sicurezza. Lo stesso ragionamento può essere effettuato ricordando i rapporti con le società che costruiscono airbus, a cui la Sabelt fornisce le cinture perle hostess, o con la Nasa, chele utilizza per imbracare i materiali da spedire nelle stazioni orbitanti intorno alla Terra. I motivi del successo sono gli stessi che valgono per le auto da corsa: se l’equipaggiamento per le hostess su un aereo di linea pesa mediamente un chilo e duecento grammi, quello messo a disposizione da Sabelt misura cento grammi in meno. Sembra un niente eppure, moltiplicato per il numero di voli, diventa determinante. Di nuovo si ripresentano le endiadi leggerezza e affidabilità. Fa una certa emozione toccare con mano qualcosa che altri, nel mondo, non sono in grado di ottenere con identiche caratteristiche. Si prova il brivido della frontiera.
Si avverte di essere in cima alla vertigine di oggetti la cui complessità è inversamente proporzionale all’appariscenza: sono accessori, la cui esistenza in apparenza sembra rispondere a funzioni di supporti, eppure non solo determinano gli esiti di una vittoria (in un Gran Premio automobilistico), ma rientrano nell’orizzonte delle cose indispensabili, meglio dire vitali Bisogna riconoscere che questo è l’unico paradigma da seguire in termini di sostenibilità e solo quando se ne avrà ferma convinzione, solo quando l’evidenza dei fatti avrà convinto tutti che non ci può essere alternativa all’ipertecnologismo, ci si può affacciare nello stabilimento Mi, il più avvincente, pur assorbendo 1115%dell’intera produzione. Dalla linea Daytona escono appena quattro sedili al giorno, l’equivalente di due auto sportive: un niente se si pensa che nello stabilimento M2, quello dove si raggiunge l’85% della produzione complessiva, da una linea omologa vengono fuori quaranta esemplari. II rapporto è uno a dieci.
L’esempio testimonia l’estrema accuratezza con cui vengono sottoposti a complicati processi di elaborazione strutturale, modificandosi dalla fase iniziale (che comincia dalla scocca in carbonio o vetroresina) al secondo stadio (l’applicazione della schiuma nei punti nevralgici che potrebbero interferire con l’incolumità dell’autista/pilota), a un terzo stadio (la copertura con pelle o alcantara) e infine a un quarto (la personalizzazione coni loghi di fabbrica o altri indicatori). Quattro sedili al giorno è una cifra che non può competere con alcuna nozione di standardizzazione e trova riscontro in una dimensione artigianale, pur trattandosi di un’artigianalità speciale perché le fodere in pelle sono minuziosamente trattate con speciali macchine da cucire, provate e riprovate fino a eliminare la più innocua delle pieghe mediante due strumenti che, nel gergo della fabbrica, chiamano scarpetta e phon: la prima, somigliante auna spazzola, ha il compito di stirare la pelle, il secondo, simile a un asciugacapelli, emette aria calda con cui modellarla assecondando le pieghe della scocca. Se prima erano venute in mente le attitudini dei tappezzieri, ora i gesti degli operai ricordano i parrucchieri. Sembra impossibile, ma un’azienda ipertecnologizzata si orienta verso la dimensione del taylor made, un modo per dichiarare una sorta di autonomia nei confronti di quella mentalità che porta ad accettare passivamente la dittatura della tecnica. La galleria dei test dinamici è considerata il cuore della Sabelt.
Una fila di manichini in tuta siede come in una sala d’attesa ospedaliera. Pare che aspettino il proprio turno, quando ognuno di essi sarà imbracato su un sedile agganciato a un carrello e lanciato su un binario a velocità folle. Sembrerebbe un aggeggio da luna park se non ci fossero in ballo gli esiti di una verifica tanto delicata quanto pericolosa. Nonostante siano pupazzi, hanno il piglio rassegnato delle vittime, sanno di doversi sottoporre a una prova di forza. C’è perfino un bimbo nella fila, con lo stesso sguardo assente degli altri. L’affidabilità di una cintura odi un sedile passa dalla loro disposizione al martirio. Ma è nel gioco delle parti che qualcuno “muoia” per la salvezza di tutti. Il laboratorio dei test statici trasmette una dose minore di emotività. Uno derivanti della Sabelt è l’aver studiato una modalità che previene l’ipotesi di blocco. L’incolumità di una persona si raggiunge anche controllando la corrosione dei metalli a causa della salsedine. Tutto concorre a definire un quadro che pone al centro l’uomo, non il manichino seduto compostamente ad attendere il proprio turno in silenzio, immaginando di salire su una giostra.
Articolo pubblicato il 6 ottobre da Il Sole 24 Ore