Interazione, interoperabilità, innovazione. Queste le tre parole chiave per decifrare la quarta rivoluzione industriale, un cambiamento prima sociale che tecnologico. L’informatizzazione dei processi aziendali, la produzione sempre più automatizzata e l’arrivo dell’Internet of Things cambia infatti il nostro modo di organizzare l’esistenza, non solo gli strumenti di produzione di beni o servizi. Una rapida scorsa alle tre rivoluzioni che l’hanno preceduta può tornare utile per afferrarne meglio la portata.
Verso la metà del Settecento si assiste per la prima volta nella storia dell’umanità a un cambiamento radicale nella produzione di beni con l’esordio nel mondo del lavoro delle macchine alimentate da energia generata da acqua e vapore. Un secolo e mezzo l’energia elettrica favorisce una forte divisione del lavoro e della produzione di massa. Negli anni ’70 del Novecento sistemi elettronici e IT favoriscono la produzione automatizzata inaugurando la terza rivoluzione industriale, propagatasi fino a oggi, quando tecnologie digitali, sistemi cyber-fisici, sensoristica, interconnettività e analisi dei dati, segnano una evidente discontinuità con tutto quel che ha finora caratterizzato il mondo del lavoro. In questo senso la quarta rivoluzione industriale sta orientando le aziende a ricercare e formare dei profili professionali con competenze trasversali e conoscenze nelle tecnologie emergenti e nella gestione dell’innovazione.
L’Università deve operare per far entrare i giovani laureati nel mondo del lavoro e soprattutto metterli nella condizione di avere capacità e conoscenze adeguate alle trasformazioni del mondo industriale.
Secondo gli ultimi dati Istat (maggio2017), il 37 per cento dei giovani (tra i 15 e i 24 anni) non trova lavoro: una percentuale che stride con quelle decine di migliaia di posti che le imprese non riescono a coprire perché non trovano la figura adatta (meccatronica, energia, elettronica). Esiste un mismatch tra domanda e offerta lavorativa che il nostro paese non è riuscito finora a colmare. Per farlo sarebbe necessario: favorire un contatto diretto tra studenti universitari e imprese; integrare l’apprendimento scolastico e universitario con l’esperienza lavorativa; definire un ruolo più efficace dell’orientamento; armonizzare conoscenza e lavoro con percorsi di studio e di formazione più vicini al lavoro che cambia e alle nuove figure professionali. Quanto alle possibili politiche di ricerca da seguire, è utile segnalare il cosiddetto modello della tripla elica sviluppato da Etzkovitz-Leydersdorff, incentrato sul sistema di relazioni che si sviluppa tra università, settore privato e pubblica amministrazione. Questo network realizza un contesto favorevole al trasferimento di conoscenza e al conseguente sviluppo di innovazione attraverso la realizzazione di una infrastruttura della conoscenza che vede la sovrapposizione delle sfere istituzionali alla base del modello, grazie a flussi di comunicazione capaci di sviluppare un ambiente favorevole alla diffusione della conoscenza.
Lab, Fab e App: verso il 9° Programma Quadro
I dati mostrano che la produttività dei ricercatori italiani è di buon livello. L’Italia ha, infatti, pubblicato 3,5 articoli per ogni milione di dollari investito in ricerca e sviluppo, registrando livelli di produttività e tassi di crescita molto simili al Canada e secondi solo al Regno Unito.
Va precisato però che il nostro paese si attesta solo all’8 per cento del budget ottenuto in Horizon 2020. Bisogna tuttavia tenere presente che tale percentuale va raffrontata con la quota di ricercatori italiani sul totale dell’Unione Europea: con poco più di 168.000 ricercatori (dati OCSE 2014), l’Italia contribuisce per il 6,2 per cento al totale dei ricercatori UE (circa 2milioni e 700.000). Si tratta quindi, di una debolezza di carattere quantitativo e non qualitativo, che determina anche la conferma della posizione dell’Italia nell’Innovation Score board 2017 in cui, come negli anni precedenti, il paese rimane, nel complesso, tra quelli classificati come “innovatori moderati”. A conferma dell’alta qualità dei ricercatori italiani ci sono anche i Grants finanziati dall’Erc – European Research Council, fondi finalizzati a supportare i giovani ricercatori nella fase iniziale della loro carriera scientifica. Le statistiche mostrano che i ricercatori italiani sono al terzo posto dopo la Germania e la Francia, anche se solo 19 dei 43 progetti di ricerca vinti da Italiani saranno condotti in Italia.
Il nuovo Programma per la ricerca europea (Fp9) secondo quanto proposto nel Rapporto Lamy, prevede l’articolazione lungo tre prospettive che ricalcano i tre pillars di Horizon 2020:
Industria 4.0 e le politiche della ricerca italiana
Il Ministero per lo Sviluppo Economico, il 21 settembre 2016 ha presentato il Piano nazionale Industria 4.0 intitolato “Investimenti, produttività e innovazione”, nel quale ha indicato la propria strategia d’azione enunciando i punti fondamentali per l’intervento volto a promuovere lo sviluppo della quarta rivoluzione industriale. La prima direttrice chiave, quella sugli investimenti innovativi, ha puntato a mobilitare nel 2017 investimenti privati aggiuntivi per 10 miliardi, 11,3 miliardi di spesa privata in ricerca, sviluppo e innovazione con focus sulle tecnologie dell’Industria 4.0, più 2,6 miliardi di euro per gli investimenti privati early stage; nello specifico vuole incentivare gli investimenti privati su tecnologie e beni 4.0, aumentare la spesa pubblica in ricerca, sviluppo e innovazione e rafforzare la finanza a supportodi I4.0.
Tra le politiche della ricerca, svolgono un ruolo importante in Italia anche i Cluster Tecnologici Nazionali (Ctn), con i quali il il Miur ha favorito la creazione di 8 Cluster (Aerospazio, Agrifood, Chimicaverde, Fabbrica intelligente, Mezzi e sistemi per la mobilità di superficie terrestre e marina, Scienze della Vita, Tecnologie per gli ambienti di vita, Tecnologie per le Smart Communities) focalizzati su uno specifico ambito tecnologico e applicativo, idonei a contribuire alla competitività internazionale sia dei territori di riferimento sia del sistema economico nazionale. Più di recente, nell’agosto 2016, il Miur ha rilanciato lo strumento pubblicando un bando per la costituzione di 4 nuovi cluster (MadeinItaly, Blue Growth, Energia e Beni Culturali) che in questo modo saranno presenti in tutte le aree della Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente. La conversione in legge del decreto-legge 20 giugno 2017 stabilisce che i Ctn diventino strutture di supporto e di efficientamento per il coordinamento delle politiche di ricerca industriale.
Il Miur è inoltre titolare del Programma Operativo Nazionale Ricerca e Innovazione 2014-2020, approvato dalla Commissione europea il 14 luglio 2015, dedicato al riposizionamento competitivo dei territori meridionali delle regioni in transizione e di quelle in ritardo di sviluppo. L’obiettivo prioritario del Pon Ricerca e Innovazione è il riposizionamento competitivo delle regioni più svantaggiate allo scopo di produrre mutamenti di valenza strutturale per accrescere la capacità di produrre e utilizzare ricerca e innovazione di qualità per l’innesco di uno sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo. In attuazione dell’azione del Pon “Ricerca e Innovazione” 2014–2020, il Miur realizza l’intervento nelle dodici aree di specializzazione individuate dal Pnr 2015-2020 e coerenti con quelle previste dalla Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente, con l’obiettivo di creare e stimolare un ecosistema favorevole allo sviluppo “bottomup” di progetti rilevanti attraverso forme di Partenariato pubblico-privato che integrino, colleghino e valorizzino le conoscenze in materia di ricerca e innovazione.
Lo sviluppo economico e sociale delle Regioni, guidato dall’innovazione e gestito da modelli di governance multilivello e multistakeholder, passa attraverso una Politica di Coesione (programmazione 2014-2020) fondata su strategie di specializzazione intelligente (Smart Specialization Strategies-S3) finalizzate a individuare le priorità di investimento in ricerca, sviluppo e innovazione che completano le risorse e le capacità produttive di un territorio per costruire per corsi di crescita sostenibile nel medio e lungo termine.
Le persone al centro del cambiamento
Le politiche della ricerca hanno un senso solo se il cambiamento generato della nuove tecnologie sarà sociale oltre che economico. Anche rimanendo nella nicchia delle metodologie della ricerca, la trasformazione e il potenziamento dell’industria convenzionale richiede un team-working in cui diviene imprescindibile la condivisione dei dati e l’interazione costante tra specialisti di settori diversi che devono avere l’umiltà di riconoscersi espertissimi nel loro campo, ma necessariamente profani in tutto il resto. Per questo fondamentale è l’interscambio dei risultati, la multidisciplinarietà dei progetti di ricerca e la capacità di trovare i giusti strumenti di dialogo, senza che i diversi linguaggi delle diverse discipline siano d’ostacolo all’obiettivo, bensì strategie di arricchimento reciproco e di successo.
In questo scenario, la persona assume un ruolo centrale, da studente, lavoratore, fruitore, cliente, imprenditore. All’università pertanto oggi non spetta soltanto il compito di fornire ai giovani le giuste conoscenze e competenze per entrare nel mondo del lavoro, ma anche saper intercettare le direttrici di sviluppo del mondo industriale, adeguarne la propria missione didattica formativa e aprirsi alla società stessa, attraverso i sentieri aziendali, cuori pulsanti dell’economia territoriale e centri qualificati di ricerca e sviluppo, in cui la sinergia tra capitale umano, risorse e innovazione può generare risposte in grado di equilibrare il rapporto tra domanda e offerta, offrire opportunità ai giovani talenti e innescare un circolo virtuoso di benessere e contribuire alla crescita e al progresso del Paese.
articolo pubblicato su Civiltà del Lavoro, n. 2/2018