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SINTESI IN PRIMO PIANO – 31 dicembre 2019

In evidenza sui maggiori quotidiani:
– Sfida su Reddito di cittadinanza e Quota 100
– Salvataggio PopBari, aumento di capitale a 1,4 miliardi
– Manovra, riparte la corsa a sconti fiscali per 5,2 miliardi
– Genova, crollo in galleria sull’A26. Aspi riduce i pedaggi in Liguria
– Erdogan pronto a mandare in Libia oltre 6.000 soldati

PRIMO PIANO

Politica interna

Testata:  Repubblica 
Autore:  c.ve. 
Titolo: Conte in politica, destra all’attacco L’approvazione del Pd e il gelo M5S
Tema: Il futuro politico del premier
«Tutto ciò dimostra che Giuseppe Conte ha sempre mentito, uno che non ha mai preso un voto in vita sua: gli italiani lo aspettano alle elezioni, prima che faccia danni irreparabili». Così il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato l’annuncio, pubblicato ieri da Repubblica, del premier Giuseppe Conte di voler rimanere in politica anche dopo il suo impegno a Palazzo Chigi. La destra è partita subito all’attacco del premier, che ancora alla conferenza stampa di fine anno, lo scorso 28 dicembre, aveva dichiarato di non voler puntare a un proprio gruppo in Parlamento e aveva pubblicamente dissuaso i grillini inquieti a formare dei gruppi parlamentari in suo sostegno. Ora Conte ha detto che non sarà certo «un novello Cincinnato», che si ritirò a vita privata. E che quindi il suo impegno, in qualche modo, proseguirà. «Ecco l’ennesimo leader di sinistra attaccato alla poltrona», ha reagito la capogruppo alla Camera di Forza Italia, Maristella Gelmini. «Il premier prima o poi dovrà sottoporsi, come tutti i politici, al responso della volontà popolare. Gli elettori gli hanno già inviato diversi avvisi di sfratto, e l’ultimo non potrà tardare. La democrazia è più forte dell’attaccamento al potere», ha spiegato Annamaria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato. Ma nella giornata di ieri hanno fatto più rumore quelli della sua stessa maggioranza che invece sono rimasti in silenzio. Forse perché inevitabilmente leggono la mossa del presidente del consiglio come un primo atto di concorrenza. Tace Renzi. Tace Di Maio. Colpisce soprattutto il silenzio assordante dei Cinquestelle. In ambienti interni al Movimento si fa però notare che l’uscita del premier «non è stata né tempestiva né utile al governo». Il dualismo Di Maio-Conte rischia di essere uno dei temi del prossimi mesi. Un duello che potrebbe mettere a rischio gli equilibri del governo giallorosso.
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Testata:  La Verita’ 
Autore:  Belpietro Maurizio 
Titolo: Altro che partito: Conte vuole il Colle – Altro che nuovo partito alla Monti Giuseppi vuole salire al Quirinale
Tema: Il futuro politico del premier
Conte si è innamorato della poltrona che occupa dall’estate del 2018 e non ha nessuna intenzione di lasciarla per fare ritorno alla cattedra universitaria. Ma chi avesse pensato che al capo del governo interessasse il posto di capo politico dei grillini si sbagliava. Conte non ha alcuna intenzione di fare il nuovo Di Maio e di guidare i 5 stelle. Il presidente del Consiglio ha ben altro in testa per il suo futuro. Non a caso, in Parlamento si agita l’idea di un gruppo a lui direttamente ispirato, anche se il premier nega. Il partito di Conte in realtà è già pronto anche senza la sua benedizione ufficiale e serve a traghettare i grillini delusi verso una nuova sponda. Obiettivo: il sostegno alla linea del premier, sia in caso di spartizioni di governo sia in vista di future elezioni. L’avvocato del popolo, insomma, si prepara a organizzare la difesa della sua poltrona. Del resto, nonostante le fibrillazioni della maggioranza, è lo stesso Conte a dire di essere tranquillissimo. Il premier infatti è convinto che comunque vada per lui andrà sempre bene, perché il potere logora chi non ce l’ha. Che i 5 stelle si dividano, che il Pd sia scosso da scissioni, poco importa. L’unico punto fermo resta lui. Almeno fino al 2023. Per quella data, magari altre cose potrebbero cambiare. Del resto, non è nel 2022 che si libera il Quirinale? Da avvocato del popolo a presidente del popolo il passo per l’uomo che si è appassionato al ruolo potrebbe essere breve.
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Testata:  Stampa 
Autore:  Geremicca Federico 
Titolo: Zingaretti e il Pd appesi al voto in Emilia Il 26 gennaio sarà la rinascita o il tracollo
Tema: voto in Emilia

Che cosa dovrà essere il 2020 per l’Italia, Nicola Zingaretti è riuscito a dirlo – immaginiamo – in tutta sincerità. Niente fuochi d’artificio, al solito, ma un sobrio e rarefatto augurio: «È arrivato il tempo di ricostruire: dovrà essere l’anno di un nuovo vocabolario civile e con politiche di vera ricostruzione«. Parola chiave per l’anno che comincia, dunque, «ricostruire». Ma cosa augurerebbe a se stesso, invece, il segretario del Pd? Potesse dirlo con la stessa sincerità, probabilmente chiederebbe all’anno nuovo una cosa sola: dodici mesi totalmente diversi da quelli del 2019, annus horribilis anche questo, nonostante sia arrivato dopo un 2018 che peggio non poteva andare, con il Pd crollato nel voto al suo minimo storico. L’anno che si apre non potrà esser peggiore di quello che si chiude. Nicola Zingaretti vorrebbe esserne convinto, ma non lo è. Tutto quel che vede muoversi intorno a lui, infatti, non spinge minimamente all’ottimismo. Il Paese non riparte, il governo marcia in ordine sparso, il Pd non dà segni di ripresa… In queste condizioni, immaginare un 2020 col vento in poppa è complicato, anche per un ottimista come lui. La scelta, dunque, sarebbe di non spingere lo sguardo troppo in là. Limitarsi all’orizzonte. Studiare e affrontare una tappa per volta. E solo qualcuno che gli vuole molto male, allora, poteva proporgli come prima tappa quella che ha di fronte: l’Emilia-Romagna. La madre di tutte le battaglie. O di qua o di là: senza scorciatoie o vie di mezzo. Il voto emiliano-romagnolo è come una diga, e Nicola Zingaretti lo sa. Se viene giù la “fortezza rossa” (per la verità già ripetutamente lesionata) casca anche tutto il resto: governo, Pd e sua segreteria inclusa. Una sconfitta, insomma, condizionerebbe e cambierebbe segno all’intero 2020. Ma anche una vittoria avrebbe lo stesso effetto. Ed è per questo in fondo, per una sorta di proprietà transitiva, che l’Emilia-Romagna del 2020 sta a Nicola Zingaretti come la Sardegna del 2009 stette a Walter Veltroni: che perse le elezioni e lasciò la guida del Pd. Nell’orizzonte del segretario-presidente, dunque, per ora ci sono solo un giorno ed una data: domenica 26 gennaio. Se la diga tiene, è un conto; se cede, è un altro. Da qui ad allora continueranno le baruffe di governo, si litigherá su Anas e prescrizione, ma nulla sarà programmabile e prevedibile prima di quel giorno e quella data.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Marro Enrico 
Titolo: Sfida su Reddito e Quota 100 – «Reddito e Quota 100 da rivedere» Il Pd apre il fronte. Ma Di Maio: mai
Tema: tensioni nel governo
Reddito di cittadinanza e Quota 100; prescrizione; concessioni autostradali; Alitalia e Ilva. Sono almeno cinque i terreni di scontro nella maggioranza in vista della ripresa dell’attività di governo. Che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, vorrebbe concentrare sull’Agenda 2020 per rilanciare l’azione del suo esecutivo e che invece dovrà dedicare, ancora, a comporre dissidi tra gli alleati. A cominciare dal vertice del 7 gennaio, ufficialmente convocato sul tema giustizia ma sul quale pesano gli altri fronti. Ieri ha tenuto banco, in particolare, la polemica sulle due misure simbolo del Conte I: reddito e Quota 100, appunto. Dopo le aperture del premier nella conferenza stampa di fine anno, in molti avevano pensato a una riforma. Ma ieri è stata la stessa presidenza del Consiglio a far sapere che «non è all’ordine del giorno alcuna revisione». Concetto ribadito poco dopo dal leader dei 5 Stelle, Luigi Di Maio: «Il reddito di cittadinanza e Quota 100 non si toccano». Un messaggio indirizzato soprattutto a Italia viva, che con la ministra Teresa Bellanova aveva chiesto l’abolizione di questi provvedimenti, e al Pd, che con il capogruppo al Senato Andrea Marcucci ricorda: «Quota 100 scade comunque nel 2021, il reddito sta andando peggio delle peggiori previsioni. Possono non essere in agenda revisioni immediate, ma è tempo di iniziare a valutare». Ma è sulla prescrizione che i toni si inaspriscono con l’avvicinarsi del vertice del 7 gennaio. Ettore Rosato, presidente del partito creato da Matteo Renzi, avverte che sulla riforma Bonafede (che ferma la prescrizione dopo il primo grado di giudizio) «il governo rischia grosso». Il provvedimento, aggiunge, «va semplicemente abrogato. Se non accadrà, voteremo con Forza Italia» la proposta Costa (responsabile Giustizia di FI) che appunto cancella la legge Bonafede e sulla quale si tornerà a discutere in commissione Giustizia alla Camera l’8 gennaio (termine per la presentazione degli emendamenti). Reagiscono duramente i 5 Stelle, che parlano di «ricatto», mentre il Pd, con il responsabile Giustizia, Walter Venni, si appella a Conte affinché il 7 trovi «una sintesi nella coalizione», ma avverte che se ciò non accadrà, «voteremo in Parlamento la nostra proposta; al momento nessuno di noi ha valutato di votare il testo di Forza Italia».
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Testata:  Stampa 
Autore:  Martini Fabio 
Titolo: Intervista a Matteo Renzi – Renzi: il reddito va cancellato – “Cari grillini, al nostro Sud servono cantieri non sussidi”
Tema: tensioni nel governo

Matteo Renzi anticipa a La Stampa la sua versione della verifica che dovrebbe rilanciare il governo Conte. Con una significativa premessa: «Che il reddito di cittadinanza sia un sussidio che non funziona, lo dice la Guardia di Finanza, ma oramai lo stanno capendo tutti…». Buttarla giù dura non significa far irrigidire i Cinque stelle e rinunciare ad una riforma? «Ma io credo che non occorra aver fretta, bisogna lasciare ai Cinque stelle il tempodi metabolizzare il cambiamento. Ma al tempo stesso è arrivato il momento di cambiare quel meccanismo. Con un’altra politica: al Sud bisogna aprire cantieri, anziché continuare a dare sussidi». Nel Palazzo sembra si siano messi l’anima in pace: il governo dura. Al di là della volontà dei leader, lei compreso, è tutto così semplice? «Penso che l’Italia meriti stabilità. Una situazione di governo tranquilla sarebbe ideale per tutti, anche perché più siamo stabili, più possiamo cogliere la felice opportunità del calo del costo degli interessi sul debito. Quando sono arrivato a Palazzo Chigi spendevamo 77 miliardi di euro all’anno, nel 2020 saranno 59 miliardi. Tutto merito del lavoro della Bce e delle nostre riforme. Più c’è stabilità, meno costa il debito. Ma dobbiamo riconoscere che stabilità non può voler dire tirare a campare. I populisti dovevano far sparire la povertà, hanno fatto sparire solo la crescita. La vera scommessa del governo è proprio questa: è urgente fare un decreto crescita perché l’Italia è ferma». «Come Italia Viva daremo un contributo serio. Teresa Bellanova lo sta facendo sull’agricoltura, con Elena Bonetti finalmente sono state stanziate le prime risorse per la famiglia. Abbiamo pronta la nostra proposta sull’Irpef. Ma la canina di tornasole per capire se davvero si fa sul serio è il Piano Shock per le infrastrutture: non porteremo slide, ma un vero e proprio testo di legge. Si tratta di sbloccare 120 miliardi di euro per scuole, ponti, dissesto, strade, ferrovie. Rilanciamo il Pil, diamo lavoro anziché sussidi e soprattutto facciamo cose utili all’Italia». Conte ha fatto capire di essere pronto a ritoccare quota 100, forse i Decreti sicurezza, forse il Reddito di cittadinanza: ci crede? «Deve chiederlo a lui. Quando ho sentito il Presidente del Consiglio spiegare che in questi mesi ha dovuto rimediare ai disastri fatti dal Governo precedente, ho molto apprezzato. Mi pare un sussulto di consapevolezza tardivo ma realistico. Adesso si tratta di capire se il Conte2 sia davvero cambiato rispetto al Conte1».
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  AL. T. 
Titolo: L’ira di Casaleggio: da parlamentari M5S falsità su di me
Tema: M5S
Un lungo post sui social dettagliato e ruvido, insolito per un uomo di poche parole come Davide Casaleggio. Ma la sua autodifesa, più che una replica alla stampa, è un attacco diretto ai parlamentari del suo Movimento. Perché da giorni si moltiplicano le critiche e l’ultimatum sulle rendicontazioni sta facendo esplodere il malumore interno, unendo motivazioni economiche a quelle politiche provocate dalle recenti nomine che hanno aumentato il tasso di permeabilità del Movimento all’associazione Rousseau e ai fedelissimi di Casaleggio. Il figlio del fondatore specifica subito di avere aspettato la chiusura della legge di bilancio per smentire «cose completamente inventate e altre verosimili, ma appositamente incomplete». Dieci accuse che si concludono con lo stesso aggettivo: «Falso». I.a prima smentita è sul fatto che la Casaleggio associati guadagni di più da quando il Movimento è in Parlamento. I dati a conforto della tesi sono il fatturato e utile del 2007 —2,7 milioni e 617 mila euro — confrontati con l’ultimo anno: 2 milioni di fatturato e 181 mila euro di utile. Casaleggio nega di «assistere» il Movimento per soldi: «Non siamo una multinazionale ma una Pmi. Avessi voluto i soldi, avrei potuto aspirare a una nomina da qualche centinaia di migliaia di euro». Falso anche che la Casaleggio Associati sia «una società di lobbying» e che la società di trasporto marittimo Moby, che avrebbe finanziato sia Casaleggio sia il blog di Grillo, sia stata favorita dal Movimento nelle sue attività parlamentari e governative. Nella sua furia difensiva, Casaleggio nega ogni conflitto d’interesse e pure quello con Grillo. Ma ribalta le accuse sugli eletti: «Sarebbe interessante sapere se i parlamentari che oggi si riempiono la bocca con attacchi nei miei confronti abbiano società di proprietà o quote in diverse di esse per le quali abbiano presentato direttamente in qualità di parlamentari, qui sì con potere di firma, delle leggi o emendamenti che abbiano avuto impatto sulle loro aziende. Mi risulta che 120 parlamentari abbiano una quota di un’azienda».
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Casadio Giovanna 
Titolo: Fioramonti via dal Movimento 5S: “Sono deluso, troppi attacchi” – Fioramonti se ne va e attacca Di Maio “Deluso dal M5S ha perso i valori”
Tema: M5S
«Il Movimento 5 Stelle mi ha deluso molto. So che esiste un senso di delusione profondo, più diffuso di quanto si voglia far credere». Sono le parole con cui Lorenzo Fioramonti, il ministro dimissionario della Scuola, ha lasciato ieri sera anche i 5Stelle. Approda nel gruppo Misto alla Camera, smentendo per ora l’ipotesi di un raggruppamento “contiano”, di sostegno al premier Giuseppe Conte da creare con altri transfughi grillini. Ma per il M5S è l’ennesima prova che una frana è in corso nel partito di Di Maio, che le avvisaglie di scissione ci sono tutte. Comunque sarebbero tra i 10 e i 15 quelli pronti ad andare via alla Camera. L’addio dell’ex ministro si consuma con un post su Facebook, dove annuncia di avere già comunicato al presidente della Camera, Roberto Fico la decisione di «lasciare il gruppo parlamentare ed approdare, a titolo puramente individuale, al Misto». Ma non usa preamboli, come del resto è sua abitudine, l’ex ministro nel giudizio sul M5S: «È come se quei valori di trasparenza, democrazia interna e vocazione ambientalista che ne hanno animato la nascita si fossero persi nella pura amministrazione, sempre più verticistica, dello status quo». Un atto d’accusa. Ricostruisce i suoi «giorni difficili: il mio nome sballottolato sui giornali per ogni sorta di retroscena, speculazione e cospirazione». Però ad amareggiarlo sono stati gli attacchi grillini. «Gli attacchi più feroci sono arrivati dal Movimento 5 Stelle, non criticando la mia scelta, ma colpendo la mia persona».
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Testata:  Stampa 
Autore:  Magri Ugo 
Titolo: Mattarella e l’invito all’unità
Tema: Quirinale
Nessuno deve aspettarsi miracoli dal discorso che Sergio Mattarella pronuncerà stasera; non se li attende nemmeno il Capo dello Stato che, come di consueto, sarà piuttosto sobrio e non farà raffreddare il cenone. Eppure, sarebbe superficiale sottovalutare l’impatto del suo quinto messaggio, che sarà il settantesimo nella storia repubblicana. In primo luogo perché lo vedranno dieci milioni di italiani, oltre a quelli sintonizzati per radio o collegati via web. E comunque, banale non sarà. Secondo le anticipazioni che filtrano dal Colle, Mattarella si lancerà in una missione politicamente ambiziosa, dall’esito incerto, forse addirittura già perduta in partenza. Cercherà di aprire gli occhi alla gente. Attraverso una manciata di esempi, proverà a far intendere come ultimamente siamo caduti tutti quanti vittime di ossessioni e fobie, di campagne d’odio e ubriacature collettive, di guerre propagandistiche e manipolazioni mediatiche, di polveroni sollevati ad arte e di polemiche allucinate che poco per volta hanno distolto l’attenzione dai mali autentici dell’Italia. Quali siano i veri guai cui bisognerebbe porre rimedio, Mattarella ce ne farà l’elenco, e la sua lista farà inevitabilmente a pugni con narrazione dominante. Giovani e ambiente saranno il cuore del suo discorso. Il presidente parlerà di clima, di ecosistema a rischio, di interi territori in pericolo, di potenziali disastri causati dall’uomo. Denuncerà come troppo poco ci si occupi dei disoccupati, i quali rappresentano la vera grande emergenza nazionale. Servirebbe ben altro impegno per fronteggiarla e chissà che non ci scappi un plauso per le Sardine, giovani energie su cui nessuno è riuscito finora ad allungare le mani. Ribadirà che evadere il fisco non è un diritto ma una vergogna senza attenuanti. Difenderà le donne tuttora discriminate e bersaglio della violenza maschile. Si preoccuperà degli anziani spinti ai margini dalla rivoluzione digitale, del Sud che trova ascolto solo alla vigilia delle elezioni. Lascerà intendere come l’intera nostra politica non possa ruotare esclusivamente intorno all’immigrazione, e difatti poco per volta il fenomeno si sta sgonfiando senza bisogno di esasperare i toni, senza smarrire il senso di umanità.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Diamanti Ilvo 
Titolo: Anti Salvini cercasi – Sempre in cerca di un nemico i leader si bruciano in fretta
Tema: sondaggio

L’anno che verrà, secondo circa metà degli italiani intervistati da Demos (per Repubblica), sarà piuttosto, “simile”, se non “uguale”, all’anno che sta finendo. Al 2019. Che disegna un Paese sospeso. Unito e diviso da un leader. Come nel decennio che finisce. Quest’anno: da Matteo Salvini. Dopo l’altro Matteo. Renzi. E, naturalmente, dopo Berlusconi. Le speranze degli ultimi anni, quando oltre un terzo dei cittadini immaginava un futuro (prossimo) diverso e migliore, si sono, dunque, “normalizzate”. Gli ottimisti superano di pochissimo i pessimisti. Così, il quesito sul nostro “domani” resta (letteralmente) sospeso. Senza risposta. Cosa attendersi nell’anno che verrà? Chissà… Tuttavia, il sentimento sociale non appare particolarmente scosso. D’altra parte, ci siamo abituati alle svolte. Alle “rivoluzioni”, puntualmente frenate da “involuzioni”. Così, perfino l’incertezza verso il futuro si è ridimensionata. In calo di 3 punti rispetto all’anno scorso, ma di 11 rispetto a un anno fa. Anche se mantiene livelli molto elevati: 45%. Delinea un Paese diviso e sospeso. Che, ormai, si è abituato a tutto. Anche all’incertezza. Divenuta una certezza. Come la famiglia. Unico riferimento certo di questo Paese senza riferimenti. La famiglia. Circa il 60% degli italiani la considera un sostegno “economico sicuro”. A conferma che l’Italia è un Paese fondato sulla famiglia. Un rimedio all’insoddisfazione generale. Non solo “economica”. Perché garantisce l’integrazione sociale e “bilancia” lo scetticismo verso il funzionamento della democrazia.  La democrazia “rappresentativa” ha risentito dei cambiamenti che hanno coinvolto – talora “travolto” – i soggetti della rappresentanza. I partiti lasciano un vuoto dove echeggia, forte, la voce dell’Uomo solo al comando. Un richiamo che incontra il favore di oltre metà dei cittadini, come mostra, da anni, il Rapporto di Demos su “Gli italiani e lo Stato”. Nell’edizione più recente, pubblicata una settimana fa, raccoglie il consenso del 55% del campione. Mentre il quasi il 90% ritiene (molto o abbastanza) positiva la riduzione dei parlamentari. Cioè: dei “rappresentanti”. È lo specchio di un Paese deluso dai partiti e dalle istituzioni. In cerca di Capi da seguire. E da perseguire. D’altronde, in politica, i “nemici” contano assai più degli “amici”. Cosi, se valutiamo la graduatoria dei migliori e dei peggiori dell’anno appena trascorso, vediamo come prevalgano i “peggiori”. Largamente. D’altronde, in Italia, e non solo, gli orientamenti politici sono, da sempre, ispirati dal “distacco”. Da fratture. Più della preferenza politica, conta l’antipolitica. Che divide il Paese a metà. Quest’anno, intorno a Salvini. Per il 21% degli intervistati: il migliore. Per oltre un terzo (il 34%): il peggiore. Oltre metà degli orientamenti politici ruota intorno a lui, in Italia. Pro o contro Salvini
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Pagnoncelli Nando 
Titolo: Consensi in calo nel 2019 per i leader dei partiti – L’anno della caduta dei leader Mancano i consensi trasversali
Tema: sondaggi

Per la politica il 2019 è stato un anno turbolento, segnato dal cambio di governo, con la nascita di un’inedita maggioranza e la ristrutturazione di gran parte dello scenario abituale. Vale quindi la pena di riassumere l’andamento nel corso dell’anno dei principali indicatori politici. Cominciamo dalle intenzioni di voto. La Lega segnala un piccolo ridimensionamento del proprio consenso: dal 34% delle Europee arriva al 36% di fine luglio, dominato dal blocco delle navi che portano i migranti, scende di 4 punti ad agosto, dopo l’apertura di una crisi che molti italiani non hanno compreso, si attesta a chiusura d’anno ad un pur ragguardevole 32%. Pur rimanendo la principale forza del Paese, non riesce quindi la chiamata alle anni degli elettori («I pieni poteri»), il cui successo era strettamente collegato all’ipotesi di elezioni anticipate non andata in porto. Il Movimento 5 Stelle (17,7%) si colloca sostanzialmente al livello registrato alle Europee, poco più della metà del consenso ottenuto alle Politiche. Solo immediatamente dopo la costituzione del governo con il Partito democratico, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, ottiene risultati apprezzabili, presto rientrati. Il Pd, che sino a settembre si era tenuto all’incirca sui livelli delle elezioni europee, perde oltre 4 punti e si colloca al 18% circa dei voti validi. La scissione renziana, come abbiamo visto dai flussi presentati prima di Natale, produce una fuoriuscita certamente significativa, ma non lo svuotamento nello stile di Emmanuel Macron con il Partito socialista francese. Infine Fratelli d’Italia, stimata sopra il 10%, oltre 4 punti in più rispetto alle Europee. È una formazione che ottiene successi capitalizzando soprattutto i malumori degli elettori dei due alleati, ma capace anche di mobilitare elettori provenienti dall’incertezza o dall’astensione. I leader vedono andamenti simili a quelli dei partiti. Salvini, che aveva un indice vicino al 60 nella primavera, scende dopo la crisi al 42 e successivamente arretra al 37-38. Sembra quindi che, anche le polemiche recenti intorno al Mes, che hanno visto toni forti, non abbiano prodotto risultati di rilievo per il segretario della Lega. Di Maio arriva a chiusura d’anno ai minimi storici: indice di 21, più che dimezzato rispetto agli inizi dell’anno. Il leader incarna la crisi del Movimento e della sua proposta politica, che non riesce a soddisfare gli elettori di riferimento.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Giannini Massimo 
Titolo: Il commento – C’è vita fuori dal Palazzo
Tema: bilancio del 2019

Con la logora cerimonia cannibale, finisce un anno bruttissimo. L’Italia ne esce malconcia, ma viva. Non era scontato, dopo una delle fasi più critiche della storia repubblicana. In Italia più che altrove, come dicono il Censis e Ilvo Diamanti, il virus della sfiducia si annida nelle pieghe della tessuto sociale. Stato, Parlamento e partiti sono stabilmente agli ultimi posti nella fiducia dei cittadini. La “società ansiosa di massa” nasce così. Ma gli italiani — ed e questa la prima novità di Capodanno — sembrano ormai “stanchi di guerra”. Come ha scritto Carlo Verdelli, il Paese per l’anno che verrà non coltiva sogni impossibili, manifesta bisogni minimi: una guida stabile e un governo responsabile. Una classe dirigente capace di rimettere il bene comune al centro dell’agire politico, e di rinnovare il Patto costituzionale tra i cittadini e lo Stato. Le forze in campo non paiono ancora all’altezza della sfida. E’ chiaro: nelle condizioni date, quello demo-stellato è il migliore dei governi possibili. Ma senza un vero salto di qualità il fine legislatura è un miraggio. Sul Pd si può contare fino a un certo punto: è un cantiere fragile, alla continua ma finora infruttuosa ricerca di una rifondazione che gli consenta di sanare la “rottura sentimentale” con il suo popolo. Su MSS non si può contare affatto. In questo decennio ha avuto un ruolo centrale. Giuste o meno che fossero, ha dato voce alle istanze di cambiamento che venivano dal Paese profondo (sia pure commettendo l’errore di cavalcarle in chiave anti-politica). Violenti o meno che fossero, ha canalizzato i bacini di rabbia che crescevano nell’Italia depressa (sia pure portando la colpa di non averli svuotati). Oggi quasi tutto è svanito, nell’ascesa dal Vaffa al governo. E quasi nulla è rimasto, sotto i cingoli della ruspa di Salvini. M5S ha perso 6 milioni di voti alle europee, e ora sta perdendo il suo popolo. Grillo ha una sola opzione: rientrare in uno schema nuovamente bipolare, facendo fronte comune con la sinistra al governo e combattendo le destre all’opposizione. Ma deve piegare la penosa resistenza di Di Maio, che con la sua ridicola “terza via” ha già regalato Conte ai Democratici. Il 2020 e terra incognita Ma intanto — ed è la seconda, ancora più fragorosa novità di Capodanno — un pezzo di Paese su questa terra si è già mosso e si sta muovendo, senza aspettare il Palazzo Romano. Prima di tutto le “sardine”, che hanno riempito 92 piazze in un mese, per raccontare un’altra storia rispetto a quella di Salvini e Meloni, per chiedere più giustizia sociale e meno odio razziale, più democrazia e meno demagogia.
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Economia e finanza

Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Bufacchi Isabella 
Titolo: Eurozona, cautela della Bce per la crescita troppo bassa
Tema: previsoni sulla crescita
Il rallentamento della crescita economica dell’Eurozona inizia a stabilizzarsi e il solo fatto di essere riusciti ad evitare ulteriori peggioramenti è di per sé un segnale positivo. Anche i rischi al ribasso sono in un certo senso meno pronunciati adesso di quanto non fossero qualche anno fa e qualche mese fa, e questo miglioramento va nella giusta direzione. Ma la Bce resta cauta: il tasso di crescita, a seguito di una frenata più lunga e più severa del previsto, resta debole e il timido rialzo dell’inflazione è ancora troppo modesto. I rischi al ribasso permangono. Per questo la politica monetaria della banca centrale europea rimane confermata ampiamente accomodante e per un prolungato periodo di tempo. E la Bce non abbassa la guardia: la stabilizzazione c’è ma la crescita si è assestata su un livello basso. È questo il clima che si respira a Francoforte, e negli ambienti vicini alla Bce, in vista del nuovo anno. Le notizie negative sono durate quasi tutto il 2019, soprattutto nelle economie dominate dal settore manifatturiero e dall’export come Germania e Italia, e la fiducia dei consumatori ne ha risentito. Sarebbe potuta andare peggio, la Germania sarebbe potuta entrare in recessione tecnica e la moderazione della crescita nell’area dell’euro sarebbe potuta continuare anche nel quarto trimestre. Invece, proprio in questo ritaglio di fine anno, sono arrivati alcuni segnali, sia pur modesti, che la neo presidente Christine Lagarde ha definito nella sua prima conferenza stampa «incoraggianti». Guardando ai dati su scala mondiale ed europea, gli indici Pmi e di misurazione del clima di fiducia di famiglie e imprese che la Bce segue attentamente, si sono prima stabilizzati e poi hanno registrato un piccolo rialzo. Inoltre la grande incertezza legata all’andamento del settore manifatturiero e del commercio è stata controbilanciata dalla resilienza del settore dei servizi. A questo si sono aggiunti tre leggeri miglioramenti sul profilo di rischio, che hanno portato la Bce ad indicare che i rischi per le prospettive di crescita dell’area dell’euro, connessi a fattori geopolitici, crescente protezionismo e vulnerabilità nei mercati emergenti, restano orientati al ribasso «sebbene siano divenuti lievemente meno pronunciati».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Franceschi Andrea 
Titolo: Piazza Affari sul podio in Europa Nel 2019 ha guadagnato il 28,2% – Milano batte resto del mondo Piazza Affari chiude a +28,2%
Tema: Borse

E’ stata un’annata da incorniciare per le principali Borse mondiali. In un contesto segnato dall’incertezza sugli esiti della guerra dei dazi e dai concreti segnali di rallentamento del ciclo tutte le piazze mondiali hanno messo a segno guadagni notevoli in scia a Wall Street che ha fatto +30% sull’S&P500 aggiornando i nuovi massimi storici. L’apparente contraddizione si spiega alla luce della risposta che le Banche centrali hanno voluto dare ai segnali di rallentamento della congiuntura. Una risposta che è stata all’insegna del rilancio delle politiche espansive. Sia negli Stati Uniti, dove la Fed ha tagliato per tre volte i tassi, sia in Europa dove la Bce ha rilanciato il piano di Quantitative easing. La politica espansiva delle banche centrali ha favorito la propensione al rischio tra gli investitori. Di ciò hanno beneficiato i BTp, i cui rendimenti hanno toccato i minimi di sempre, e la Borsa di Milano che ha chiuso l’anno con un rialzo del 28,28% sull’indice Ftse Mib. Il rialzo messo a segno dall’indice delle società a maggior capitalizzazione è stato superiore alla media del mercato azionario mondiale, che ha guadagnato il 25%, e alla media del mercato europeo (lo Stoxx 600 ha guadagnato il 23,25%). In Europa solo le piazze di Atene (+49,6%) e Dublino (+31%) hanno fatto meglio. La capitalizzazione complessiva delle società quotate a Piazza Affari – ha fatto sapere ieri Borsa italiana – si è attestata a 651 miliardi, con una crescita del 20,1% rispetto al 2018. Il peso della Borsa sul Pil italiano è passato dal 33,5 al 36,8 per cento. Il contesto di mercato ha indubbiamente giocato a favore ma è vero anche che, sul fronte dei conti societari, i numeri sono stati piuttosto buoni. Salvo poche eccezioni tutte le maggiori società quotate hanno fatto registrare un aumento degli utili.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Mobili Marco – Parente Giovanni – Paris Marta 
Titolo: Con la manovra via alla corsa per ottenere gli sconti fiscali – Manovra, riparte la corsa a sconti fiscali per 5,2 miliardi
Tema: manovra

Il grande ritorno delle tax expenditures. Con la legge di bilancio da domani in vigore il Governo rilancia le spese fiscali per il prossimo triennio e mette sul piatto 5,2 miliardi di agevolazioni, tagli di aliquote e regimi speciali a partire dal 2020. Lo scorso anno gli interventi classificabili sotto la voce sconti fiscali in manovra furono 43 e, almeno per il 2019, era lo Stato a risparmiare 2,5 miliardi di euro. Con la nuova legge di bilancio da ieri in «Gazzetta Ufficiale», pur contando su circa 300 commi in meno rispetto a quella per il 2019, sono 59 le expenditures (considerando anche il decreto fiscale e la relativa legge di conversione) che nel prossimo triennio eroderanno il gettito. Si comincia, come anticipato, da oltre 5,2 miliardi nel 2020 e poi si sale a più di 7,5 miliardi nei due anni successivi. Va subito detto che gli oltre 7,5 miliardi l’anno potrebbe scendere a 4,5 miliardi in base a come sarà definito entro il 30 aprile prossimo il cosiddetto bonus della Befana. In palio ci sono, infatti, 3 miliardi da restituire ai contribuenti che utilizzano per determinate spese pagamenti tracciati. Non è ancora del tutto chiaro cosa deciderà il Governo, ossia se vorrà riconoscere uno sconto fiscale o, con più probabilità, opterà per la restituzione sull’estratto conto dei cittadini. Comunque sia, anche se al netto del bonus della Befana, gli importi attesi dalla nuova legge di bilancio faranno lievitare ulteriormente le spese fiscali dello Stato che, dopo l’ultimo monitoraggio della commissione ministeriale sulle tax expenditures, ammontano a 533 tra deduzioni, detrazioni, aliquote ridotte, sostitutive e crediti d’imposta per un costo stimato già a bilancio nel 2020 di 62,33 miliardi complessivi. Ad alzare l’asticella della spesa è il taglio al cuneo fiscale previsto per il 1° luglio. Il Governo con la legge di bilancio, oggi in «Gazzetta Ufficiale» e da domani in vigore, ha stanziato per il nuovo anno 3 miliardi di riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente. Nei due anni successivi il taglio sarà ancora più incisivo potendo contare su una dote di 5 miliardi. Per gennaio è attesa la proposta del ministero dell’Economia su chi beneficerà e quanto peserà il taglio del cuneo fiscale. Al momento si ipotizza un potenziamento e ampliamento del bonus degli 8o euro senza definire se il bonus resterà come oggi una spesa fiscale o se al contrario potrà essere classificata come una detrazione.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Serafini Laura 
Titolo: Salvataggio PopBari, l’aumento di capitale arriva a 1,4 miliardi – PopBari, piano da 1,4 miliardi Dalle banche subito 310 milioni
Tema: PopBari
Il Fondo interbancario per la tutela dei depositi verserà entro oggi 310 milioni di euro alla Banca popolare di Bari per consentirle di chiudere l’esercizio 2019 con i requisiti patrimoniali in ordine. La decisione è stata assunta ieri all’unanimità, al termine di una riunione del consiglio durata oltre tre, nel corso della quale sono state esaminate nel dettaglio le motivazione della richiesta di intervento giunte dai commissari della banca pugliese, che secondo le indiscrezioni avevano immaginata una cifra più alta e vicina ai 340 milioni. La somma deliberata alla fine viene però ritenuta più vicina a quanto effettivamente indispensabile per l’istituto di credito e soprattutto capiente: 288 milioni, infatti, è il fabbisogno quantificato per coprire il gap di patrimonio rispetto ai requisiti minimi e per non perdere i finanziamenti Ela (erogati alle banche in crisi provvisoria di liquidità) dalla Bce. Si tratta di un ammontare più elevato rispetto allo shortfall calcolato nei mesi scorsi, oscillante tra 150 e 200 milioni. La quota residua rispetto ai 310 milioni (poco più di 20 milioni, dunque) è quella necessaria alle perdite ulteriori stimate per chiudere il conto economico 2019. Il ruolo del Fondo non si esaurisce però qui. L’intervento complessivo per risollevare le sorti della banca, si legge nella nota diffusa ieri, prevede «un ampio progetto di rafforzamento patrimoniale di 1,4 miliardi euro, da realizzare nei prossimi mesi». Il Fondo, si spiega, si impegna «a concorrere alla complessiva operazione di rafforzamento patrimoniale per l’importo massimo di 700 milioni». Quest’ultima soglia va considerata come un «fino a un massimo di», dunque l’auspicio è che alla fine l’apporto necessario in sede di aumento di capitale sia inferiore. L’altro partner dell’operazione sarà il Mediocredito centrale, che a sua volta oggi riunirà il cda per deliberare il proprio impegno fino a 700 milioni. I passi successivi, prosegue la nota, «saranno disciplinati da un accordo quadro che verrà sottoscritto dalle parti allo scopo di pervenire alla configurazione dell’assetto complessivo dell’operazione. Ci sarà quindi un piano industriale sulla base di un’attenta valutazione dell’attivo e del passivo della banca e la determinazione del fabbisogno patrimoniale definitivo».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Ferrando Marco 
Titolo: Intervista ad Antonio Patuelli – Patuelli (Abi): «Più di così non possiamo fare, è ora che il bail in sia abolito» – «Più di così non possiamo fare: è ora che il bail in sia abolito»
Tema: PopBari

Ieri Carige, oggi Bari: per le banche italiane anche il 2019 si chiude con un intervento spintaneo a sostegno di un altro istituto in crisi. «Quando norme e condizioni costringono le banche a investimenti di salvataggio, lo sforzo subito è gravoso», commenta Antonio Patuelli. Tradotto: l’umore non è buono, ma anche questa volta non c’era alternativa. «Ma ora speriamo davvero che sia l’ultima», osserva il presidente dell’Abi: «Di più non possiamo fare». Su Bari siamo alla cronaca di una crisi annunciata e tollerata a lungo, sembrerebbe. Non a caso c’è chi punta il dito contro la Vigilanza. «Premesso che non dispongo di elementi riservati, ricordo che dal 4 novembre 2014 sussiste la Vigilanza unica sul settore bancario in capo alla Bce, che la esercita direttamente sugli istituti maggiori e indirettamente su tutti gli altri. Infatti può anche avocare a sé il controllo su qualsiasi banca. Avrà un significato il fatto che in questi anni Francoforte non abbia avocato a sé la vigilanza su Bari, è un segnale di fiducia verso la Banca d’Italia di cui bisogna tenere conto prima di arrivare a improvvisate conclusioni. Inoltre leggo di una serie molto ampia e diversificata di inchieste giudiziarie già aperte su Bari, e queste saranno determinanti nel capire che cosa sia successo»,
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Serafini Laura 
Titolo: Genova, crollo in galleria sull’A26 Aspi riduce i pedaggi in Liguria – Genova, crollo in galleria Sì Aspi al calo dei pedaggi
Tema: autostrade
Resta alto il livello di tensione tra il governo e Autostrade per l’Italia sulle norme introdotte con il Milleproroghe finalizzate a revocare la concessione autostradale alla società pagando il meno possibile. Ma intanto si apre un nuovo fronte con il ministero delle Infrastrutture, a causa della caduta di calcinacci dentro una galleria della A26, che ha portato il ministro Paola De Micheli a convocare per oggi la società allo scopo di conoscere le cause del crollo che per fortuna ieri non ha causato danni alle persone e ai veicoli in transito.  A questo proposito si è tenuta ieri una riunione al ministero dei Trasporti (dopo un precedente incontro avvenuto il 27 dicembre) per valutare le iniziative che i concessionari possono adottare per andare incontro alle esigenze dei cittadini: Aspi ha annunciato la disponibilità a ridurre le tariffe fino all’esenzione dei pedaggi nelle tratte gestite in Liguria, con un importo a carico della concessionaria autostradale di 10 milioni di euro. L’incontro di oggi sarà anche occasione per sottoporre a verifica le azioni messe in atto da Aspi sul fronte dei monitoraggi, che sono stati conclusi su tutti i 2mila ponti e viadotti della rete. «Procederemo col massimo rigore, su tutti i fronti» ha assicurato l’ad di Aspi Roberto Tomasi. In questo contesto le ipotesi di una trattativa tra le due controparti sulla questione della revoca, senza alcune prospettiva al momento di revisione della norma, appare alquanto velleitario. Per il gruppo controllato dalla famiglia Benetton nessun dialogo appare possibile finché la formulazione dell’articolo 37 del Milleproghe resta quella circolata nelle bozze, che nella sostanza prevede la possibilità di trasferire ad Anas provvisoriamente la concessione di Aspi nel caso di una revoca e a fronte di un indennizzo inferiore a quanto previsto dalla convenzione. E ancora: nelle modifiche apportate il 28 dicembre si esclude la possibilità della risoluzione contrattuale di diritto, che consentirebbe ad Aspi di richiedere un indennizzo che essa ritiene adeguato.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Capozucca Emily – Fulloni Alessandro 
Titolo: Crolla in Liguria un pezzo di galleria – Crollo in galleria, bloccata la A26
Tema: autostrade
Autostrade per l’Italia (Aspi) è di nuovo sotto tiro. Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Paola De Micheli — «arrabbiata e preoccupata» secondo fonti del Mit — ha convocato la società con urgenza, un «faccia a faccia» previsto per oggi alle 10 a Roma. Durissime le parole del viceministro Giancarlo Cancelleri: «La revoca immediata delle concessioni mi sembra il minimo! Cos’altro deve crollare?». Tema cruciale, visto che in serata il presidente della Repubblica Mattarella ha emanato il decreto «Milleproroghe» che contiene, appunto, l’ipotesi di revoca della concessione su cui il governo è chiamato ad esprimersi. Poco più di un mese fa alcuni tratti della A26 (che collega Genova Voltri con Gravellona Toce, in Piemonte) erano stati chiusi un paio di giorni dopo che la Procura di Genova, a seguito di alcune perizie effettuate dai consulenti, aveva messo in luce il rischio di cedimenti sui ponti Fado Nord e Pecetti Sud. Uno dei due viadotti era già emerso tra quelli interessati dall’indagine sui cosiddetti falsi report nata da una costola dell’inchiesta sul crollo del Morandi. Autostrade, anche per evitare il rischio di un provvedimento di sequestro, era intervenuta con dei lavori d’urgenza, riaprendo i tratti in 48 ore. Ma più in generale è tutta la viabilità autostradale in Liguria a rivelarsi fragile: nei giorni scorsi ci sono state chiusure parziali sulla A6 e altri interventi hanno tormentato il traffico sulla A10. Senza contare le continue frane che hanno martoriato la viabilità provinciale e regionale.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Ferrari Giuseppe_Franco 
Titolo: Un decreto ad alto rischio per la prova costituzionale – Concessioni, perché il dl è illegittimo
Tema: autostrade
La terza bozza del decreto detto “milleproroghe” circolata sulla stampa dopo un vivace dibattito tra le forze di governo presenta a prima vista numerosi profili di probabile illegittimità, che dovrebbero sconsigliarne l’adozione e che comunque ne mettono a repentaglio la sorte in futuri contenziosi. Un primo gruppo di problematiche si riferisce alla verosimile violazione dell’art. 77 della Costituzione, relativo al ricorso al decreto legge. Quest’ultimo richiede inderogabilmente il requisito della straordinaria necessità ed urgenza, la cui sussistenza, a distanza di oltre sedici mesi dal fatto di Genova e in assenza di accertamenti giudiziari di qualsiasi concretezza in ordine alle responsabilità, è almeno dubbia. L’emergenza è ormai almeno in parte auto-procurata o imputabile allo stesso concedente. Il decreto deve poi essere dotato del carattere della omogeneità, dal punto di vista delle finalità o almeno del contenuto. La gran parte delle disposizioni del “milleproroghe” mira appunto a disporre di termini di varia natura ed oggetto, mentre in materia autostradale si detterebbe una disciplina apparentemente generale, come si suol dire ordinamentale, come tale inidonea alla sede del decreto di urgenza, e che in realtà assume l’aspetto di una legge-provvedimento, mirata su di una specifica fattispecie nota. Come tale, per costante giurisprudenza costituzionale, sarebbe comunque assoggettata ad un vaglio particolarmente penetrante in termini di ragionevolezza e non arbitrarietà. Persino la legge di conversione del decreto legge sconterebbe il difetto dei presupposti di urgenza e di omogeneità, venendo a sua volta viziata insanabilmente. Un secondo gruppo di censure si riferisce alla sostanza della disciplina che sembra volersi introdurre. Sia la Corte di giustizia europea che il Consiglio di Stato richiedono pacificamente che la revoca, comunque denominata, della concessione sia sempre assistita da adeguati meccanismi compensativi e di ristoro.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Fubini Federico 
Titolo: Numeri e cause del declino di un Paese – Perché l’Italia è ferma
Tema: declino

Ci si dilania ancora molto sul fatto che l’Italia abbia vissuto una Grande recessione diversa da quella degli altri, più dura e più lunga, controllata solo grazie ai sacrifici e alla tenacia dei suoi abitanti. Si nota invece meno che l’Italia sta vivendo una ripresa irriconoscibile. Non si assiste a niente del genere nel resto del mondo, se si confronta la crescita cumulata nei vari Paesi dai rispettivi punti più bassi raggiunti una decina di anni fa. Da quando l’Italia toccò il fondo nel 2013, il Prodotto lordo è aumentato del 4%. È un rimbalzo di meno della metà rispetto a Grecia, Finlandia, penultimi in questa classifica, mentre il recupero in Spagna e Giappone è stato di due volte e mezzo l’Italia, in Francia di tre volte, in Germania oltre quattro volte, in Gran Bretagna di più del quintuplo e in Svezia di più di sei volte. Dopo la Grande recessione, mentre gli altri si sono rimessi a camminare o a correre, siamo rimasti inceppati. Eppure sono ripartiti tutti: Paesi che hanno praticato l’austerità e che l’hanno ignorata, Paesi dell’euro o con una moneta nazionale, economie industriali e di servizi. In parte, abbiamo fatto meno strada noi perché siamo stati fra gli ultimi a uscire dal tunnel. C’è però un altro aspetto: abbiamo affrontato la crisi bancaria lentamente e dopo la recessione, non rapidamente e subito come fecero Germania, Spagna, Stati Uniti Gran Bretagna o i Paesi Bassi. In Italia poco meno di dieci anni fa si scelse prima di tutto di cercare di riportare sotto controllo il debito pubblico, temendo che la crisi sarebbe sfuggita di mano se si fosse aggiunto altro debito per ricapitalizzare le banche. Altri Paesi non avevano lo stesso problema e comunque dovettero reagire in fretta perché la loro industria finanziaria collassò prima.
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Societa’, istituzioni, esteri

Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Venturini Franco 
Titolo: Illusioni perdute (su Tripoli) – La tenaglia mediterranea che si stringe sull’Italia
Tema: Libia
Una tenaglia mediterranea si stringe sull’Italia e rischia di farle vivere, nel 2020, il suo più grave smacco diplomatico dalla fine della guerra: la perdita della Tripolitania. Complici la guerra civile in Libia e la decisione di Turchia e Russia di inviare uomini e armi sul campo di battaglia, l’Italia delle interminabili liti interne si scopre all’improvviso al centro di una grande partita geopolitica che non aveva previsto, che minaccia i suoi interessi energetici e che lascia poco spazio al tentativo di governare i flussi migratori che proprio dalla Tripolitania giungono sulle nostre coste. Quando va bene. Eppure per l’Italia l’emergenza Libia viene da lontano, da un mondo tramontato (chiedere agli Usa) nel quale né Putin né Erdogan oserebbero muoversi come fanno oggi. Fedele alla sua cultura del soft power, per molti anni dopo l’abbattimento militare di Gheddafi nel 2011 l’Italia si è identificata con i buoni uffici dell’Onu. Anche quando essi risultavano palesemente inefficaci o troppo partigiani a sostegno di Fayez al-Sarraj, oggi fragile capo della Tripolitania. E si è nascosta, l’Italia, anche dietro rassicurazioni americane tanto altisonanti quanto prive di concreto significato: il «ruolo dirigente» di Obama, poi la «comune cabina di regia» di Trump. Ipersensibili eravamo invece ad una ingigantita competizione con la Francia (che esiste ed è lecita), con il risultato che noi e i transalpini collaboriamo strettamente per tentare di recuperare il terreno che entrambi, ma noi più di loro, abbiamo perduto. Schierata decisamente dalla parte di Sarraj, l’Italia poteva almeno vantare una coerenza tra la sua linea e i suoi interessi in Tripolitania. Per un po’ siamo andati avanti così. Ma il 4 aprile scorso questo debole castello di carte, fatto di parole e di cortesi inviti più che di iniziative politiche, è venuto giù. Con l’aiuto dell’Arabia Saudita, degli Emirati e dell’Egitto, e forte di una calcolata disattenzione statunitense, Khalifa Haftar si è lanciato quel giorno all’assalto di Tripoli. Che avrebbe probabilmente espugnato, non fosse stato per le sperimentate milizie di Misurata che in odio al generale cirenaico decisero di difendere la capitale.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Cremonesi Lorenzo 
Titolo: Erdogan pronto a mandare in Libia oltre 6.000 soldati Macron e Al Sisi «No escalation»
Tema: Libia
Corre veloce il treno della crisi libica. L’Europa, divisa e bisognosa di coordinarsi, annaspa in ritardo. La Turchia accelera più di tutti. Ieri il governo Erdogan ha presentato la mozione relativa all’invio di truppe a sostegno della coalizione di Accordo Nazionale in Tripolitania, che verrà approvata dal parlamento di Ankara il 2 gennaio. Le milizie di Tripoli e Misurata si aspettano di vedere i primi rinforzi in arrivo già il giorno dopo (si parla di un totale di 5.000 soldati regolari oltre a 1.600 volontari siriani). L’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, replica minacciando bombe su porti e aeroporti della Tripolitania. Il tema è bollente. A renderlo più controverso è il continuo flusso di notizie circa la presenza combattente già sui due fronti libici di «mercenari» stranieri che vanno dai contractors russi, ai soldati turchi, egiziani, francesi e sino a miliziani sudanesi e del Ciad. Fonti indipendenti a Tripoli confermano la ritirata della milizia Marsa di Misurata dal quartiere di Hadba, uno dei più importanti nelle zone meridionali della capitale abitato in maggioranza da sfollati pro-Haftar. A Roma è ben vista la cooperazione con Berlino e Londra, ma si guarda con preoccupazione alle mosse francesi in vista della Missione Europea in Libia per il «cessate il fuoco» prevista il 7 gennaio, cui parteciperà anche Luigi Di Maio. Ieri il presidente francese Macron ha parlato per telefono con l’omologo l’egiziano Al Sisi ed entrambi hanno lanciato un appello per la «moderazione» e perché «si eviti un’escalation» mentre Haftar era volato al Cairo.
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Testata:  Stampa 
Autore:  FRA.SEM. 
Titolo: Libia, altre milizie in campo per fermare la missione Ue
Tema: Libia

La Turchia accelera sull’approvazione del dispiegamento di un contingente “regolare” in Libia. Il testo della mozione, approvata dal presidente RecepTayyip Erdogan, è stato sottoposto ieri pomeriggio alla presidenza del Parlamento il cui voto plenario è previsto giovedì pomeriggio, quando la l’Assemblea nazionale tornerà a riunirsi in sessione straordinaria, anticipando il rientro previsto il 7 gennaio. Sebbene l’opposizione voterà contro, il passaggio del provvedimento sembra scontato. L’escalation in accelerazione ha spinto anche il presidente francese, Emmanuel Macron e il suo omologo egiziano Abdel Fattah al Sisi (ieri hanno avuto una lunga conversazione telefonica) a «richiede a tutti gli attori internazionali e libici la massima moderazione, convenendo di «agire in stretto coordinamento in vista della conferenza di Berlino e di facilitare un decisivo rilancio dei negoziati inter-libici». E su richiesta dell’Egitto, la Lega Araba ha convocato per oggi una riunione urgente per discutere della situazione in Libia e soprattutto del memorandum d’intesa siglato dalla Turchia con Tripoli. Allerta massima è stata istituita sul confine tra Libia e Tunisia.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Carrer Stefano 
Titolo: Tra Kim e Trump tre incontri storici e una crisi irrisolta
Tema: denuclearizzazione

Per assicurare la «sovranità e sicurezza» della Corea del Nord, occorre passare a misure «concrete e offensive»: le dichiarazione del leader Kim Jong un in una riunione-chiave dei leader del partito (insolitamente affollata a prolungata) hanno suscitato diffuse apprensioni, in vista della scadenza di oggi di una sorta di ultimatum da lui lanciato fin dall’aprile scorso agli Stati Uniti. Se entro fine anno non ci saranno progressi negoziali, aveva indicato Kim, la Corea del Nord metterebbe fine a ogni colloquio e si riprenderà una completa libertà di azione: in pratica, in mancanza di concessioni americane in particolare su un allentamento delle sanzioni internazionali, Pyongyang passerebbe a percorrere una «nuova via», che potrebbe contemplare il ritorno a test nucleari o missilistici a lungo raggio dopo una pausa che dura dal 2017. C’è quindi molta attesa per il discorso di domani di Kim, che a Capodanno suole indicare le priorità della politica nazionale. I colloqui «working-level» in ottobre a Stoccolma non hanno prodotti risultati. Il 3 dicembre scorso, un alto esponente della diplomazia nordcoreana aveva parlato di un «regalo di Natale» in arrivo da Pyongyang agli Usa («Sta solamente agli Stati Uniti scegliere quale regalo di Natale ricevere»). Natale è passato senza storia, salvo dichiarazioni estemporanee di Trump sulla possibilità che il regalo potesse essere un bellissimo vaso di artigianato coreano, e macabri scherzi su Twitter relativi a un attacco nucleare sugli States (il che hanno indotto noti esperti, a scanso di equivoci, a rilasciare tweet di smentita). La diffusa inquietudine per le possibili mosse di Kim provoca strane fibrillazioni: ad esempio, è arrivato a mezzanotte di giovedì scorso l’annuncio sullo schermo della rete pubblica televisiva giapponese Nhk sul lando di un missile nordcoreano a lungo raggio, specificando la traiettoria di sorvolo del Giappone fino a un punto di caduta in mare «circa 2mila chilometri a est di capo Erimo in Hokkaido». Ma era una clamorosa fake news, una bufala, o meglio un errore.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Santevecchi Guido 
Titolo: Altre minacce agli Usa Poi Kim ammette: «L’economia è in crisi»
Tema: denuclearizzazione

E’ ormai chiaro anche a Trump che Kim non ha alcuna intenzione di rinunciare all’arsenale nucleare, costruito come polizza d’assicurazione per sé e il suo regime. In queste condizioni il presidente americano non è disposto ad ammorbidire l’embargo economico votato all’Onu. Le sanzioni stanno facendo molto male all’economia nordcoreana. Nel discorso al Plenum Kim ha parlato dell’urgenza di «correggere la grave situazione industriale», riferisce l’agenzia statale Kcna. Con le sanzioni l’industria autarchica può al massimo assicurare la sussistenza e alimentare l’arsenale missilistico. E così Kim ha alzato la pressione sulla Casa Bianca. Nella seconda metà del 2019 sono stati contati 13 test con missili a corto e medio raggio, che non possono raggiungere gli Stati Uniti e quindi non sfidano direttamente Trump, ma possono colpire Sud Corea e Giappone (con le loro basi americane). Ha sparato anche un mega lanciarazzi multiplo da 600 millimetri. A dicembre due test dl motori per razzi spaziali. Il discorso di Capodanno potrebbe sciogliere i dubbi. Come reagirà Donald Trump? Il presidente ha quattro opzioni: mandare un’altra bella lettera amichevole a Kim, che il dittatore apprezzerebbe di sicuro; proporre un summit, che però sarebbe inconcludente come i primi tre; insistere sui negoziati tecnici tra funzionari esperti di disarmo; tornare a «fuoco e furia». Trump è in campagna elettorale, è minacciato dalla procedura di impeachment e può essere nervoso.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Nigro Vincenzo 
Titolo: Raid aerei Usa in Iraq l’ira di Bagdad e Teheran
Tema: Iraq

Un nuovo pericoloso ciclo di violenze è partito in Iraq nelle scorse ore. I protagonisti sono l’esercito americano e le milizie irachene sostenute e organizzate direttamente dall’Iran. Nella notte di domenica l’aeronautica americana ha colpito 5 basi della milizia irachena Kataib Hezbollah, una delle formazioni legate all’Iran che fa parte della coalizione Hashad al-Shaabi (Forze di Mobilitazione Popolare). Negli attacchi sarebbero morti una trentina di miliziani iracheni filo-iraniani. Hashad è una coalizione di gruppi armati nata nel 2014 come risposta all’avanzata dello Stato Islamico che aveva appena conquistato Mosul. Sconfitto l’Isis, lo Stato iracheno ha provato a far rientrare le milizie nell’esercito, ma di fatto (come in Libano con Hezbollah) le più importanti sono rimaste attive e si sono collegate all’Iran, in particolare alla Forza Al Qods dei pasdaran. Negli ultimi 2 mesi, i Kataib Hezbollah sarebbero stati i responsabili di alcuni lanci di missili contro le basi irachene in cui sono rimasti 5200 soldati americani. L’ultimo attacco venerdì notte, contro una base a Kirkuk, aveva ucciso un contractor americano e ferito una decina di militari Usa. Per questo il Pentagono ha deciso la ritorsione: il ministro della Difesa Mike Esper è volato in Florida per discutere con il presidente Donald Trump assieme al segretario di Stato Mike Pompeo. «Abbiamo colpito 5 strutture di Kataib fra Siria e Iraq, il gruppo ha un forte legame con la forza al-Quds iraniana, e ha ripetutamente ricevuto aiuti e altri sostegni dall’Iran usati per attaccare le nostre forze». Kataeb Hezbollah naturalmente ha già annunciato una «dura risposta: sono stati uccisi 25 miliziani e 51 sono rimasti feriti, compresi comandanti e combattenti, e il bilancio potrebbe ancora salire.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Franceschini Enrico 
Titolo: “Greta è felice ma troppo odio su di lei” – “Greta oggi è felice, ma ha sofferto Mi preoccupa l’odio. Lei ci ride su”
Tema: Greta Thunberg
Da quando è diventata un’attivista nella lotta contro il cambiamento climatico, anzi la più famosa attivista del mondo, Greta Thunberg è «più felice». Parola del suo papà. Che adesso però è preoccupato per la «campagna di odio» nei confronti della figlia, anche se lei per il momento sembra reagire «incredibilmente bene» agli attacchi: «Sinceramente non so come faccia. II più delle volte ci ride su». Svante Thunberg, 50 anni a dispetto dei capelli lunghi che gli danno l’aspetto di un giovane uomo, padre della 16enne ambientalista svedese, è stato intervistato da Today, il programma radiofonico della Bbc che Greta ha ieri diretto per un giorno. E’ una delle cinque personalità che si stanno alternando ai microfoni della trasmissione nei programmi di fine anno. E in questo ambito il padre ha parlato per la prima volta pubblicamente e in modo estensivo di una figlia diventata uno dei volti più famosi del mondo, già nominata per il Nobel pe rla pace e da lui stesso accompagnata in barca attraverso l’Atlantico, quando è stata invitata a intervenire all’Onu e non ha voluto viaggiare in aereo per non provocare inquinamento atmosferico. «Greta aveva sofferto per tre o quattro anni di depressione, quando iniziò a fare i suoi scioperi contro il surriscaldamento del pianeta a Stoccolma, dove viviamo», racconta Svante. All’inizio «non ero d’accordo» con le sue assenze dalle lezioni e «mi preoccupava che scendesse in prima linea nella battaglia per il clima», afferma il padre. «Non parlava più, rifiutava di mangiare e di andare a scuola. Quando un figlio smette di nutrirsi è il peggior incubo per un genitore. In un primo momento io e mia moglie non l’abbiamo appoggiata nella decisione di scioperare. E lei ci dava degl iipocriti». Ma poi il padre ha cominciato a passare più tempo con Greta e la madre, Malena Ernman, cantante lirica ed ex partecipante a Eurovision, ha cancellato alcuni dei suoi contratti per starle vicina. A quel punto la famiglia ha anche chiesto aiuto a medici e psicologi, che le hanno diagnosticato la sindrome di Asperger: una forma di autismo che «la aiuta a vedere la realtà fuori dagli schemi». «Ho fatto tutte queste cose, incluso attraversare l’Atlantico in barca, perché sapevo che erano le cose giuste da fare», continua. «Ma non le ho fatte per il clima. Le ho fatte per salvare Greta»,
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Oppes Alessandro 
Titolo: Catalani pronti a dare il via libera nasce il governo Sánchez-Iglesias
Tema: Spagna
 Superato l’ultimo ostacolo, la nascita del primo governo di coalizione nella storia della democrazia spagnola dovrebbe essere ormai imminente, forse il 5 o il 7 gennaio. Il tassello mancante, l’elemento che può spianare la strada all’esecutivo Psoe-Podemos guidato da Pedro Sánchez, è arrivato ieri mattina sotto forma di parere giuridico dell’Avvocatura dello Stato. Fatto del tutto inedito in una trattativa politica, ma era proprio ciò che chiedevano gli indipendentisti di Esquerra Republicana de Catalunya per garantire con la loro astensione parlamentare i numeri necessari per l’investitura del premier. L’Avvocatura (che dipende direttamente dal governo) ha chiesto al Tribunale Supremo spagnolo di scarcerare il leader catalano Oriol Junqueras – condannato a 13 annidi carcere per la sfida separatista del 2017 – per consentirgli di prendere possesso del suo seggio al Parlamento Europeo, in accoglimento della sentenza con cui il Tribunale di giustizia di Lussemburgo ha decretato che gode dell’immunità. Una presa di posizione che soddisfa almeno in parte le esigenze di Erc, il partito di cui Junqueras è presidente, anche se resta il timore che l’immunità possa essere in seguito revocata. I catalani apprezzano comunque il gesto. E ora sarà il loro Conseil Nacional, massimo organo decisionale della formazione, a decidere sull’astensione parlamentare del partito che garantirebbe la nascita del governo Sánchez. Ma l’ottimismo è tale che ieri pomeriggio i leader di Psoe e Podemos hanno presentato insieme i dettagli del programma di governo progressista. Abbracci e grandi sorrisi tra i due contraenti di un accordo che fino alla vigilia del voto anticipato del 10 novembre scorso sembrava impossibile. E che invece fu siglato per iniziativa di Sánchez appena 48 ore dopo le elezioni. Entusiasta Pablo Iglesias, che nell’esecutivo avrà il ruolo di vicepremier: «Sarà un onore avere Pedro come presidente», dice il leader di Podemos.
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