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Sintesi dell’intervento del Presidente D’Amato al convegno “La Rivoluzione Digitale” (Torino, 29 settembre 2018)

28.09.2018

Siamo molto contenti come Cavalieri del Lavoro di aver scelto Torino per trattare un tema come questo, “La rivoluzione digitale”. Perché la storia dell’industria italiana, la storia anche delle evoluzioni e delle rivoluzioni del sistema produttivo italiano sono strettamente legate a questa Città, e trattare un tema come questo nel modo in cui l’abbiamo fatto si proponeva proprio di mettere in campo al tempo stesso le grandi opportunità e le grandi sfide che questa rivoluzione industriale, digitale, comunque questa grande disruptive revolution, comporta per tutti quanti noi. Per noi come imprenditori, per noi come cittadini di questo Paese, per noi come cittadini di questa Europa.

 

Innanzitutto mi sembra chiaro che più che distinguere il successo delle imprese tra imprese mature e imprese innovative, la vera distinzione da farsi è fra chi sa innovare il modo in cui fa impresa rispetto a chi invece continua a rimanere fermo a modi di operare destinati ad essere spazzati via.

 

Come sempre accade in momenti di profonda transizione, abbiamo di fronte a noi grandi opportunità e, a al tempo stesso, una grande sfida per noi come imprenditori collettivi, come parte del ceto dirigente di un Paese come il nostro e di un’Europa come la nostra. Perché la vera portata competitiva di queste trasformazioni, al di là della lettura a livello di aziende, impatta sui sistemi paese nei quali le nostre imprese operano. E se non sono, queste innovazioni, così fortemente radicali, accompagnate, anzi anticipate, da riforme istituzionali e sociali adeguate, il vero rischio è che, per quanto competitiva possa essere l’impresa, le rigidità e i contesti sistemici creino una frattura incolmabile tra chi produce valore e il contesto in cui opera.

 

È questo il tema che noi ci proponevamo di portare all’attenzione di questa mattinata, perché un Paese che guarda all’indietro, che fa passi indietro nelle sue riforme sociali e istituzionali, corre il rischio di rimanere fuori dalla creazione di valore e di opportunità, e ha quasi la certezza di vedere ancor di più impoverire i propri ceti sociali, comprimere il proprio ceto medio, creare disuguaglianze che non sono più sostenibili.

 

Viviamo noi tutti, ogni giorno, un’accelerazione dei processi di creazione di valore a cui non possiamo resistere. Si dice, questa accelerazione va governata. E allora il tema è: come la governiamo?

Uno dei passaggi chiave in tal senso è la flessibilità del mercato del lavoro. Chi vi parla è stato, quando diventai Presidente di Confindustria circa 18 anni fa, quello che ha aperto il tema della flessibilità del mercato del lavoro, della riforma del mercato del lavoro, in una logica nella quale allora ci sembrava, al sottoscritto e anche a molti dei colleghi che sono qui oggi e che allora erano con noi in Confindustria in quei giorni, quello che sarebbe successo e la direzione nella quale saremmo andati. La necessità cioè di rendere le imprese scattanti, competitive e innovative in un sistema che accompagnasse questi cambiamenti senza rotture sociali.

 

Bene, oggi siamo a discutere di questo tema qualche ora dopo che è stata fatta una manovra, i cui contenuti non sono ancora chiari ma a me appaiono assolutamente contraddittori, peraltro celebrando in maniera particolarmente enfatica la cancellazione e i passi indietro sul cosiddetto Jobs Act, negando cioè esattamente il punto fondamentale sul quale si aprono la grande partita e la grande sfida che noi abbiamo come Paese: la capacità cioè di renderci protagonisti di una trasformazione sociale e culturale utile a consentire il vantaggio competitivo più grande che abbiamo in Italia, consentire cioè alle nostre imprese e alla nostra imprenditorialità, al nostro capitale umano di creare sviluppo e creare occupazione. Perché non c’è niente da fare, non c’è niente che cambi veramente e radicalmente le condizioni del ceto medio e delle famiglie italiane se non la creazione di più posti di lavoro per famiglia.

 

Queste contraddizioni sono fortemente stridenti. Diceva giustamente Patrizio Bianchi: “Non si è mai creato lavoro e sviluppo facendo assistenza”, e noi stiamo tornando alla peggiore logica dell’assistenza. Fin dall’inizio abbiamo sempre sostenuto, e ricordo il dibattito fatto vent’anni fa, che fare deroghe per fare investimenti misurabili e produttivi tali da poter rendere più forte il sistema infrastrutturale del Paese e tali da poter rendere più forte la crescita della top-line del Prodotto interno lordo, sarebbero stati doverosamente e razionalmente ben sostenibili e documentabili, e io credo anche accettabili a livello europeo; ma fare interventi in deroga per continuare a fare politiche assistenziali e clientelari è giusto che sia fortemente cassato e negato.

 

E allora il costo di questa operazione è gravissimo per il Paese. Il vero costo non è quello che si legge sui giornali ogni giorno, non è il costo dello spread, che pure è significativo perché si traduce in maniera importante in una bella quantità di interessi da pagare in più. E non è neanche il costo della flessione dei titoli azionari, che pure hanno bruciato parecchi soldi, le Borse però come scendono salgono.

C’è un costo che nessuno legge e di cui nessuno sparla e tanto meno scrive, quindi è un invito anche ai signori che leggono e osservano e soprattutto commentano.

Qual è il costo per un Paese come il nostro nel momento in cui si perdono pezzi di sistema industriale, nel momento in cui viene meno la fiducia non dei grandi investitori finanziari a livello mondiale, non di chi opera in Borsa e di chi investe sui mercati azionari, ma di chi come noi investe in pezzi di competizione e in aziende che restano sul territorio? Qual è il costo se noi in fasi come queste non siamo in grado di attrarre investimenti nostri o di altri Paesi, e che non siano investimenti nell’acquisto di marchi o di quote di aziende che già esistono? Perché è vero che dobbiamo essere aperti, e noi lo abbiamo sempre sostenuto, alla crescita e allo sviluppo e all’integrazione internazionale, però attenzione. Noi continuiamo a essere un Paese nel quale gli investimenti esteri che arrivano in Italia non sono per la creazione di nuova base occupazionale, di nuove imprese, di nuovi asset industriali, sono piuttosto nella logica di consolidamento di aziende esistenti, consolidamento di mercati, conquista di marchi, cosa ben diversa, che mette chiaramente in evidenza come la partita di rendere competitivo il Paese, al di là di quella che è la qualità delle imprese, è la partita di questo Paese.

 

Ed è su questo che noi siamo in ritardo. Allora questa manovra, nel momento in cui contiene queste contraddizioni, è la negazione assoluta della strada maestra che noi dobbiamo saper percorrere: cioè investire per far crescere il Prodotto interno lordo del Paese, saper reinvestire nuovamente su noi stessi.

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