L’ 11 maggio 1932 nasce a Voghera Valentino Garavani, il più grande couturier italiano, il creatore con la fissazione per il bello (parole sue), l’ultimo imperatore della moda, come lo aveva ribattezzato il docufilm del 2008 su di lui. Ma se Valentino Garavani è diventato “Valentino”, è stato anche grazie a Giancarlo Giammetti: l’amico, il compagno, il socio sempre al suo fianco. Si conoscono al Café de Paris in via Veneto, 1131 luglio 1960: Valentino ha 28 anni, Giammetti 22. Sono inseparabili da allora. La persona che meglio può raccontare il creatore alla vigilia dei 90 anni, è di sicuro lui.
Cosa ricorda dell’incontro?
«Lui che mi parla di moda: all’epoca studiavo architettura, non ne sapevo nulla. Poi mi chiede se capisco il francese: lui è reduce da sette anni a Parigi, lo usa anche per pensare. Gli rispondo di sì, ma quando mi dice qualcosa faccio scena muta, perché il francese insegnato dai preti negli istituti romani è molto diverso da quello parigino. Un po’ deluso, mi fa: “Ma allora non lo parli”. E io: “Credevo di sì”. Allora mi comunica che da quel momento ci saremmo parlati solo in francese, così lo avrei imparato. Lo facciamo ancora oggi».
La formula del vostro successo?
«Talento, lavoro, fortuna. Eravamo curiosi, pieni di entusiasmo, un po’ ingenui, giovani e carini: la gente tifava per noi. Ci siamo dovuti inventare tutto, dalla pubblicità alle sfilate all’aperto in piazza Mignanelli. E quelle a ritmo di musica: l’idea m’è venuta dopo un viaggio a Londra».
Qual era il suo ruolo?
«Mettiamola così: Valentino non voleva prendersi nessun impegno, occuparsi di niente, sentire un no come risposta. Voleva lavorare in pace, e io mi occupavo di quello».
Il modo migliore per prenderlo?
«Fargli vedere le cose all’ultimo, quando non era più possibile nasconderle. Ma si è sempre fidato».
Quando è stata la svolta?
«Col senno di poi, quando dopo i due primi défilé a Roma abbiamo spostato lo show a Palazzo Pitti a Firenze, alle sfilate organizzate da Bista Giorgini con le grandi case italiane. Come ultimi arrivati ci piazzano a fine rassegna, quando i compratori sono già andati via».
E invece…
«S’era sparsa la voce di un enfant prodige arrivato da Parigi, ed erano rimasti tutti: passammo la notte a scrivere ordini. Quando ci siamo spostati a Parigi, la prima cosa che ho fatto è stata garantirci il giorno e l’orario migliori: avevo imparato. È stata importante anche la Collezione Bianca del 1968: ci spalanco tutte le porte, dalla copertina di Life al legame con Jackie Onassis».
A proposito di Jackie: avete vestito regine e star. Come gestivate certi personaggi?
«Me ne occupavo io. Mi ricordo l’attesa a una sfilata perché Liz Taylor, mai in orario, tardava di due ore. Lui era serafico, mentre io per tenere buoni gli invitati dicevo che i vestiti non erano pronti o qualche fregnaccia simile. Ma tutte adoravano Valentino, appena arrivava filava tutto liscio: alla fine, era più semplice gestire Elisabetta II che Naomi Campbell (ride, ndr)».
Pare che sia duro con la stampa.
«Lo ammetto, mi è capitato di offendermi per un articolo e cacciare chi l’aveva scritto».
E Valentino?
«La verità? Non leggeva mai gli articoli sudi lui, ero io a farlo per entrambi. Li compravo di notte all’edicola sempre aperta in piazza Colonna e la mattina lo avvisavo. Lui mi chiedeva se fossero buoni, io gli dicevo di sì, e la cosa finiva lì».
Avete in comune anche la passione per l’arte: il primo quadro?
«Abbiamo comprato da Lizzola, il sarto milanese di Pablo Picasso, dei quadri con cui il pittore pagava i vestiti. Ma se lo immagina? Per lui valevano come tre abiti: incredibile».
Cos’è che la gente non comprende á Valentino?
«Che non è il creatore stravagante che fa scenate perché non è contento di un vestito: lui ha sempre saputo cosa funzionasse e cosa no. E anche che la sua creatività bastava a sé stessa: le collezioni le ideava seduto alla scrivania con foglio e matita, nient’altro. In archivio ci sono dei suoi bozzetti anche sulle buste dei fiammiferi e sui conti dei ristoranti».
Cosa pensa dei designer che riprendono il vostro lavoro?
«Non ce ne accorgiamo nemmeno, ci appassiona molto di più il lavoro di Pierpaolo Piccioli, che con grande bravura e intelligenza ricorda Valentino in tutto quello che fa: è un grande complimento».
Oggi c’è spazio per una storia come la vostra?
«No. Per quanto brava, una persona —o due, come noi — non pub competere con le enormi realtà che occupano il settore. Anche ai nostri tempi c’era competizione: Yves Saint Laurent lavorava con 700 persone, noi con 40, ma potevamo fare a modo nostro. La colpa è anche dei media, che trasformano questi giovani artisti in idoli, per abbandonarli quando non sono più “nuovi”; così vivono per un minuto al massimo, e poi si ritrovano senza nulla. Vorrei creare un sistema più umano, per aiutarli».
In “Valentino — The Last Emperor”, il vostro rapporto è narrato con grande naturalezza.
«È il racconto di un grandissimo affetto, evolutosi negli anni, tra due persone che potrebbero ammazzare l’uno per l’altro. Tanti ci hanno scritto che grazie a quel film sono riusciti a dire ai genitori di amare qualcuno dello stesso sesso. Ne siamo felici».
Il Teatro Sodale di Voghera dedica una mostra ai 90 annidi Valentino. Voi come festeggerete?
«A casa sua a Roma, in pochi. Siamo ancora molto attenti con il Covid, soprattutto attorno a lui».
Articolo pubblicato il 7 Maggio dalla Repubblica