Articolo pubblicato nella rivista n.3/2023 di Civiltà del Lavoro
di Cristian Fuschetto
Il nocciolo della questione quando si parla di intelligenza artificiale è stato ben sintetizzato da Larry Summers, ex Segretario al Tesoro di Bill Clinton, ex direttore del Consiglio economico nazionale di Barack Obama e già rettore dell’Università di Harvard. Adesso, egli è componente del nuovo board di OpenAI, l’azienda che ha lanciato sul mercato ChatGPT. La tesi di Summers è semplice: “L’IA crea nuovi campi da gioco ridefinendo l’idea stessa di forza lavoro”. L’IA cambia dunque il concetto stesso di lavoro e, se è vero che il lavoro è componente essenziale dell’identità di ogni essere umano, l’Intelligenza Artificiale contribuisce a ridefinire l’idea di uomo.
Definito meglio il perimetro dei problemi in campo, è utile a questo punto sottolineare che l’IA riesce a fare tutto questo senza essere intelligente. Un aspetto interessante, spesso trascurato quando si parla di IA, è il fatto che l’IA sa cosa fare pur non capendo nulla di quello che fa. Come mette in evidenza Luciano Floridi in molti dei suoi saggi: “Il miracolo non è quello di aver creato un’IA, ma di aver ingegnerizzato strumenti che a intelligenza zero fanno cose che se dovessimo fare noi richiederebbero non solo un po’, ma tanta intelligenza. Siamo riusciti a scollare la capacità di agire dalla necessità di essere intelligenti”. L’IA è una scienza in grado di fornire alle macchine la capacità di agire dotandole di molta esperienza, ovvero di “dati”.
Sono considerate macchine intelligenti quelle capaci di assemblare e processare dati in modo da automatizzare processi con un intervento umano tendente allo zero. Da questo concetto di “tendente allo zero” sorgono i timori sul futuro del lavoro. Molte posizioni di lavoro, anche complesse, vedono già oggi le macchine operare in modo straordinariamente più efficace degli esseri umani, e questa tendenza non potrà che aumentare. Oltre che nel mondo della produzione, l’IA oggi è in espansione anche nel mondo dei servizi, dove il numero di software intelligenti che si interfacciano con gli utenti è già il doppio di quelli del settore industriale.
Il punto di discontinuità con il passato è dato dal fatto che le applicazioni “intelligenti” coinvolgono comparti legati anche ad attività intellettuali e di relazione, inimmaginabili fino a poco tempo fa: avvocati, giornalisti, militari, infermieri, medici. Nessuna professione sembra essere più totalmente al riparo. Una recente analisi commissionata da Goldman Sachs stima in 300 milioni i posti di lavoro messi a rischio dall’automazione. Secondo un rapporto di Confartigianato che analizza il grado di esposizione all’IA del mercato italiano del lavoro, sarebbero 8,4 milioni i lavoratori italiani a rischio per effetto della diffusione dell’intelligenza artificiale. In pratica, il 36,2% del totale degli occupati subirà l’impatto delle profonde trasformazioni tecnologiche e dei processi di automazione. Una percentuale, quella italiana, inferiore di 3,3 punti rispetto al 39,5% della media europea di lavoratori maggiormente esposti all’IA.
Detto questo, appare più utile concentrarsi su un altro aspetto. Tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno portato alla perdita di posti di lavoro, ma nello stesso tempo ne hanno fatti nascere di nuovi: sappiamo infatti che il 60% delle professioni attuali non esistevano nel 1940. Un recente studio di McKinsey (“The economic potential of generative AI”, pubblicato nel giugno 2023) ha contribuito a fare luce sulle conseguenze a lungo termine dell’IA sull’economia globale.
Secondo gli studi, il contributo che l’IA generativa potrebbe apportare all’economia globale è stimabile in una forbice compresa fra 2,6 a 4,4 migliaia di miliardi di dollari all’anno, cifra che rappresenta il prodotto interno lordo di un paese come il Regno Unito. Rispetto alle precedenti stime della stessa McKinsey, l’impatto dell’economia degli algoritmi è drasticamente superiore, salendo dal 15% preventivato nel 2017 al 40% della più recente valutazione. All’origine di questa fortissima accelerata c’è la comparsa sul mercato di tecnologie come ChatGPT, successivamente nel testo è scritto GPT (e simili, come il motore di ricerca Bing di Microsoft, Bard di Google oppure Ernie del gigante di Internet cinese Baidu).
Queste tecnologie hanno la caratteristica di essere facilmente utilizzabili e incredibilmente flessibili. Gli esperti di McKinsey parlano a tal proposito di un “catalizzatore tecnologico” in grado di spingere le industrie verso l’automazione e di liberare il potenziale creativo dei lavoratori, richiedendo, come tale, molta più leadership della tecnologia, anche a livello di autorità di regolamentazione.
Frutto di oltre due anni di lavoro e tre giorni (e notti) di negoziati finali a Bruxelles, è stato approvato il 9 dicembre il primo pacchetto di regole europee sull’utilizzo dell’IA allo scopo di porre fine al “far west dell’algoritmo” o, detto in altri termini, di far coesistere sicurezza e libertà sulla frontiera più avanzata dell’hi-tech. Si tratta del primo quadro normativo sui sistemi di IA nel mondo, salutato da Thierry Breton, commissario europeo al Mercato Interno, come un accordo “storico”.
Fra le novità più significative ci sono le salvaguardie da rispettare per chiunque sviluppa e usa l’Intelligenza artificiale; il ricorso all’identificazione biometrica dei singoli da parte delle forze di sicurezza limitato alle indagini su crimini gravi, dalle violenze sessuali al terrorismo; l’obbligo per chiunque crei false immagini di indicare chiaramente che non sono reali; multe significative, fino al 7% delle entrate globali per le aziende, nei confronti di chi viola i nuovi regolamenti europei.
Per diventare legge dell’UE, il testo concordato dovrà ora essere formalmente adottato da Parlamento e Consiglio europei. Le commissioni del Parlamento per il Mercato interno e le Libertà civili voteranno sull’accordo in una prossima riunione. Il testo finale andrà ancora limato nelle prossime settimane, ma l’intesa assicura che sarà approvato entro la fine della legislatura europea, per poi entrare progressivamente in vigore nei successivi due anni.
Non tutti sono entusiasti del nuovo regolamento. Le industrie europee di trasformazione digitale si sono interrogate sui costi delle nuove regole. Le misure potrebbero, per esempio, trasformarsi in barriere per giovani aziende decise a investire nell’intelligenza artificiale in Europa, svantaggiate dagli oneri europei rispetto ai grandi player internazionali. Secondo uno studio della Commissione europea sulla valutazione d’impatto dell’IA Act, una piccola e media impresa di 50 persone dovrebbe spendere circa 300.000 euro per adeguarsi alle norme. Non poco, soprattutto se si considera che l’Europa fatica a tenere il passo con USA e Cina sul fronte della capacità di spesa sull’innovazione.
Non è un segreto, inoltre, che l’Europa nella corsa agli investimenti in ricerca e innovazione presenta qualche affanno rispetto ai suoi principali competitor. Secondo il rapporto 2022 del Global Innovation Index, gli Stati Uniti spendono più di 700 miliardi di dollari all’anno per la R&S e tra le aziende che spendono di più in R&S al mondo quattro su cinque sono americane: Amazon (42,7 miliardi di dollari), Alphabet (27,6 miliardi di dollari), Microsoft (19,3 miliardi di dollari) e Apple (18,8 miliardi di dollari). La Cina, secondo un rapporto del Ministero della Giustizia e della Tecnologia, raggiungerà investimenti pari a 26,7 miliardi di dollari entro il 2026. Si stima che questo investimento rappresenti circa l’8,9% dell’investimento globale nell’IA, posizionando la Cina come la seconda destinazione mondiale per gli investimenti nel settore.
L’Italia? L’Italia resiste con poco. Mentre la spesa tedesca in ricerca e sviluppo si aggira attorno al 3,17% del PIL, le risorse che l’Italia investe in questo settore non superano l’1,45%. Ancor più significativo il dato relativo al numero dei cosiddetti Campioni digitali globali, cioè quelle aziende interamente focalizzate sull’IA: otto in Germania, sette in Francia, zero in Italia. In questo senso, la cornice normativa appena definita dall’UE potrebbe rappresentare un ulteriore ostacolo per lo sviluppo dell’innovazione italiana.