Un volume della Divina Commedia in bella vista, accanto l’Iliade e l’Odissea e poi ancora Guerra e Pace, Madame Bovary, I Miserabili. Se è vero che i classici non smettono di darci una prospettiva sul mondo, è anche vero che possono suggerci la prospettiva che del mondo ha chi li possiede. E’ il caso del presidente della Repubblica Popolare cinese Xi Jinping. Come di consueto anche quest’anno Xi Jinping ha tenuto il discorso di auguri alla nazione seduto alla sua scrivania, e poiché nella preparazione di questi eventi nulla è causale, men che meno la disposizione dei libri alle sue spalle, osservatori e analisti hanno sottolineato la presenza di numerosi capisaldi della cultura occidentale sugli scaffali della libreria presidenziale. Come mai? Al netto della nota passione di Xi per gli autori stranieri, si tratta di un segnale di vicinanza all’occidente e in primis all’Europa, punto di approdo delle nuove Vie della Seta.
Lanciata nell’autunno del 2013 da Xi Jinping nel corso di due visite ufficiali in Kazakistan e Indonesia, la “Belt and Road Initiative” (Bri) è il più grande programma al mondo in termini di infrastrutture: 64 Paesi oltre alla Cina (circa 4,5 miliardi di persone) coinvolti, quasi 1.000 miliardi di dollari di investimenti per più di 900 progetti di nuove infrastrutture che promettono di ridefinire gli snodi dei traffici commerciali globali dei prossimi decenni. Inizialmente chiamata con il nome “One Belt One Road”, la Bri è composta da due rotte chiave: la cintura (“Belt”) costituita dai quattro corridoi terrestri che dalla Cina attraversano l’Asia centrale per raggiungere il cuore dell’Europa, e la via (“Road”) marittima che collega attraverso due corridoi gli hub portuali cinesi con l’Oceano Indiano e il Mediterraneo passando attraverso gli stretti di Malacca e di Suez.
Un paese in grado di registrare solo lo scorso anno un’ulteriore crescita del Pil del 6,9% toccando quota 13.000 miliardi di dollari, con un volume complessivo di import/export pari a 4.280 miliardi di dollari, di cui 2.360 miliardi in export e 1.920 miliardi in import, non può permettersi di non pensare a come dar sfogo a tale potenza economica e la Bri serve appunto a questo. Ma il “progetto del secolo”, così come lo ha definito lo stesso Xi al cospetto dei rappresentati di 110 stati in occasione del primo Forum per la cooperazione internazionale della Belt and Road Initiative tenuto a Pechino il 14 e 15 maggio dello scorso anno, non è solo la punta di diamante della politica estera cinese. A ispirarne le trame sono anche ragioni, per così dire, domestiche.
Il lato domestico della Bri
Nella visione di Pechino la Bri è la componente di una strategia più ampia tesa alla realizzazione del mitico “Sogno Cinese” (Zhongguo Meng), vale a dire al risorgimento della nazione attraverso due tappe: lo sviluppo di una società “moderatamente prospera” entro il 2021 – centenario della costituzione del Partito Comunista Cinese – e la costruzione di un paese “forte e ricco” entro il 2049 – centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Per centrare questi obiettivi, Pechino, oltre che sulla Bri, punta anche sul progetto “Made in China 2025” teso a trasformare il paese da fabbrica a basso valore aggiunto a leader mondiale dello “smart manufacturing”.
Come seconda gamba utile a far marciare il “Sogno Cinese”, la costruzione di una rete infrastrutturale globale va pertanto contestualizzata e compresa anche rispetto a logiche di politica interna. In questo senso Pechino vuole servirsi della Bri per imprimere una svolta al paese, costruire opere pubbliche di grandi dimensioni e aumentare il benessere in aree depresse come, per esempio, la regione del Xinjiang, attraversata da conflitti etnici e religiosi aggravati dalle tensioni tra governo centrale e uiguri (minoranza musulmana turcofona) e snodo rilevante delle nuove vie della seta.
A sottolineare l’importanza della Bri in chiave interna è infine anche il suo modello di governance. Responsabile dell’esecuzione dell’iniziativa è la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme (Cnrs), organismo dalla forte vocazione “nazionale” in quanto organismo promotore dell’economia di piano per lo sviluppo delle province occidentali, le più economicamente arretrate del colosso asiatico.
Sinfonia per un nuovo ordine mondiale
Detto questo, la proiezione della potenza economica cinese verso l’“esterno” rimane il cuore della Bri e forse, dal punto di vista simbolico, ad attestarlo meglio di ogni altra cosa è il recente inserimento del progetto nello Statuto del Partito Comunista Cinese nel corso del 19° Congresso nazionale. La Cina in questo modo palesa innanzitutto a se stessa una rinnovata vocazione globale. “La via della Seta”, si legge inoltre sul sito del Governo cinese “è stata proposta dalla Cina, ma non è un assolo della Cina. Un’analogia migliore è quella di una sinfonia suonata da un’orchestra composta da tutti i Paesi che vi partecipano”. Merci, tecnologie, cultura, persone saranno le note di questa sinfonia scritta attraverso relazioni bilaterali e organismi internazionali multilaterali (Aseam , Sco , 16+1, Apec , Asean+). A esprimere ancora più efficacemente le ambizioni riposte nella Bri è l’ex ministro degli Esteri He Yafei. “La Cina vuole guidare la nuova globalizzazione – ha affermato nel corso del Forum di Pechino – e la Belt and Road Initiative si presenta dunque come la risposta cinese al cambiamento degli scenari geopolitici, alla crisi economica globale, e punta a definire un nuovo ordine mondiale, o meglio: a dettare le regole del sistema attuale”.
Tra “Sogno Cinese” e aspirazioni paternalistiche dal segno neoglobal, quel che è certo è che a Pechino la Bri serve eccome per trovare nuovi mercati di destinazione attraverso cui smaltire un’evidente sovracapacità industriale, per elevare la qualità dei prodotti grazie a know-how straniero (e qui l’Italia ha le carte in regola per giocarsela), per promuovere la tecnologia cinese in ambito ferroviario e per diversificare le fonti di risorse energetiche. Ridisegnare le rotte del commercio euro-asiatico serve inoltre a Pechino anche per potenziare, laddove possibile, le vie terrestri per alleggerire la dipendenza dalla talassocrazia statunitense.
Sei corridoi per connettere l’Europa
Quali sono le rotte che daranno forma alla Belt and Road Initiative? Ferrovie, porti, strade e tutto il corredo infrastrutturale e tecnologico teso a collegare la Cina con l’Eurasia e l’Africa saranno organizzati su sei corridoi di intermodalità che abbinano mare e terra: la Transiberiana e i corridoi attraverso Kazakhstan, Iran, Turchia, Pakistan, oltre che quelli per Indocina, Bangladesh, India e Myanmar.
Nelle mappe illustrate dallo Statuto ufficiale del marzo 2015 la “Belt”, la cintura terrestre, comprende quattro dei sei corridoi: il nuovo ponte Eurasiatico (New Eurasian Land Bridge), vale a dire il progetto di ampliamento dei collegamenti ferroviari tra l’Asia orientale e l’Europa, e tre cinture di collegamento: Cina, Mongolia e Russia Cina, Asia Centrale e Asia Occidentale; Cina e la Penisola Indocinese. La “Road”, la via della Seta Marittima del XXI secolo (che ricalca le rotte dell’antica via marittima che ebbe il massimo splendore nel XVI secolo), punta a sua volta a creare un collegamento con l’Europa per mezzo di due corridoi: Cina e Pakistan, da un lato, e Bangladesh, Cina, India e Myanmar, dall’altro.
Dal tracciare linee su mappe si è passati intanto all’azione e si possono già citare esempi concreti di progetti avviati nel segno della Bri: l’acquisizione del Pireo da parte di Cosco; l’ampliamento del porto di Gwadar in Pakistan; la linea ferroviaria Belgrado-Budapest; la Giacarta-Bandung; le centrali elettriche in Pakistan (Karot) e Indonesia; il potenziamento dei collegamenti ferroviari tra Europa e Cina, che andranno a ad ampliare le tratte già operative: Lodz-Chengdu, Duisburg-Chongqing, Madrid-Yiwu e Londra-Yiwu. Il volume delle merci che viaggiano attraverso questi collegamenti aumenta di anno in anno: oggi si contano 39 linee di collegamento tra 15 città europee con 20 città cinesi.
Chi finanzia il Grande Sogno
Per dare concretezza al grande “Sogno” sono stati messi in campo due bracci finanziari: il Silk Road Fund e la Banca Asiatica di Sviluppo Infrastrutturale (Asian Infrastructure Investment Bank, AiiB).
Nato ufficialmente il 29 dicembre 2014, il Silk Road Fund ha un portafoglio di 40 miliardi di dollari e conta tra i suoi investitori i nomi più importanti della finanza cinese: la State Administration of Foreign Exchange, il fondo sovrano (China Investment Corporation) e due delle maggiori banche, Export-Import Bank of China e China Development Bank. Proprio il numero uno della China Development Bank, Hu Huaibang, ha dichiarato nel corso dell’Asian Financial Forum tenuto a Hong Kong il 16 e 17 dello scorso gennaio di destinare al progetto 250 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo combinato di Grecia e Finlandia nel 2016. Huaibang ha precisato che solo nel 2017 la banca ha concesso 110 miliardi di dollari in finanziamenti per progetti legati all’iniziativa. Il Fondo può contare su molti investitori stranieri, ed è recente l’accordo per una quota del 5% di Autostrade per l’Italia. Come si legge sul sito del Fondo, l’obiettivo è “assicurare la stabilità finanziaria a medio e lungo termine e ritorni ragionevoli sugli investimenti”.
A dare manforte al Fondo nel 2016 nasce la Banca Asiatica di Sviluppo Infrastrutturale (AiiB), guidata da Jin Liqun, con un capitale di 100 miliardi di dollari. Si tratta della banca di sviluppo più grande al mondo, alla Banca hanno già aderito 70 paesi, tra cui l’Italia con una quota del 2%. La British Chamber of Commerce stima che nei prossimi 10-15 anni, per raggiungere gli obiettivi prefissati dalla Banca, serviranno investimenti richiesti pari a 3mila miliardi di euro. Jin Liqun, che ha preso parte a sua volta all’Asian Financial Forum di Hong Kong, ha dichiarato che la sua banca intende sostenere a sua volta il progetto della nuova Via della seta, ma che “non intende operare in perdita”. Dichiarazioni dal sapore più politico che altro. Un po’ di cifre possono infatti aiutarci a restituire i margini economici in ballo e, nel caso fosse ancora necessario, a legittimare una potenza di fuoco finanziaria fuori dal comune.
Secondo gli ultimi dati del Ministero del Commercio sugli investimenti cinesi nei Paesi che si stendono lungo l’antica Via della Seta, nel primo trimestre 2017 si è raggiunta quota 2,95 miliardi di dollari, per un totale di 43 Paesi raggiunti (il 14,4% del totale degli investimenti delle imprese cinesi all’estero), in crescita rispetto al 9% dello stesso periodo dello scorso anno. Dal 2013 a oggi, sono stati investiti dalla Cina oltre cinquanta miliardi di dollari nei Paesi toccati dall’iniziativa di sviluppo infrastrutturale cinese e sono state create 56 aree di cooperazione economica e commerciale che hanno generato 1,1 miliardi di dollari di ricavi fiscali e hanno contribuito a creare 200mila posti di lavoro a livello locale.
Un organismo per risolvere le controversie (e andare più veloci)
Investimenti poderosi, solida progettualità, ambizioni epocali, eppure soldi e buona volontà non possono nulla di fronte alla burocrazia. Connettere più di 65 paesi (più della metà della popolazione mondiale) significa fare i conti con altrettante legislazioni e, com’è facile immaginare, i problemi sono dietro l’angolo. Per questo lo scorso 24 gennaio Pechino ha annunciato di voler dar vita a un organismo stragiudiziale di risoluzione delle controversie. Sono allo studio una serie di procedure e meccanismi per la risoluzione delle dispute commerciali, economiche e politiche sollevate dalla Bri per le quale sono state già approvate le linee guida. L’organismo dovrà elaborare un sistema affidabile per superare le contese in materia di investimenti e commercio sulla base delle norme del diritto internazionale, proteggere i diritti e i legittimi interessi degli individui cinesi e stranieri su una base di equità giuridica, e garantire un ambiente trasparente e affidabile agli attori del business. Il Gruppo direttivo del governo cinese ha infine stabilito di dare priorità all’integrazione degli standard e delle procedure giuridici tra la Cina e i paesi interessati dalla Bri, e probabilmente questo era il punto più atteso da parte degli osservatori internazionali.
Con un commercio di beni pari a 1,4 miliardi di euro al giorno per un totale di interscambi di 500 miliardi di euro annui, l’Unione Europea è il principale partner commerciale della Cina e la Cina è il secondo partner commerciale dell’Europa, secondo solo agli Stati Uniti. La realizzazione di un asse eurasiatico per mezzo delle nuove vie della seta è pertanto nell’ordine naturale delle cose. Accanto a esigenze squisitamente economiche ci sono poi anche impellenze logistiche. Attualmente il tempo medio di trasporto dalla Cina all’Europa è di 730 ore, il 20% in più del tempo medio di trasporto dei commerci cinesi con il resto del mondo. Accorciare le rotte verso il cuore del Vecchio Continente è quindi una priorità. L’interrogativo non è dunque sul se, ma sul come farlo.
Una prima risposta è quella di spostare il più possibile i commerci su rotte terrestri, il che ridurrebbe i tempi dagli attuali 37-45 giorni di navigazione a 16-21 giorni di ferrovia. Sui collegamenti merci via treno fra Asia ed Europa va tuttavia detto che sebbene oggi esistano circa 40 relazioni fra la Cina e diversi paesi europei, tutti questi servizi non sarebbero economicamente sostenibili se non fossero sovvenzionati pubblicamente. In media la sovvenzione pubblica è compresa fra 3.500 e 4.000 dollari a contenitore e senza questi aiuti il costo salirebbe a 9.000 dollari rendendo non competitivo il treno né rispetto all’alternativa del trasporto marittimo, né tantomeno rispetto al trasporto aereo. C’è poi da segnalare che sul volume totale del commercio tra Cina e Europa, nel 2016 soltanto l’1% delle merci è stato trasportato via terra (2% se si considera il valore totale delle merci). Le nuove infrastrutture ferroviarie potranno produrre cambiamenti significativi per alcuni paesi europei (Ungheria) o dell’Asia centrale (Kazakhistan) privi di uno sbocco sul mare, o per filiere di prodotti con un rapporto tra valore e peso elevato (automotive, particolari filiere della meccanica, elettronica, alimentare).
A ciò si aggiunga che, secondo dati OCSE, nel 2030 le ferrovie saranno in grado di trasportare dall’Asia all’Europa dai 500.000 al milione di container l’anno contro i 20 milioni di container che possono già oggi essere trasportati via mare, e subito ci si rende conto che i corridoi terrestri potranno sì avere un ruolo importante nell’ambito della Belt and Road initiative ma per forza di cose secondario rispetto ai corridoi marittimi.
La stragrande parte dei volumi in movimento tra Cina ed Europa continuerà dunque a farlo via mare e su questo fronte si fa sempre più palese l’opportunità di accorciare le rotte verso l’Europa evitando Gibilterra. Passato Suez, il tragitto ideale sarebbe quello di evitare Rotterdam per favorire i porti italiani, Genova, Trieste e Venezia in primis. Si risparmierebbero 7 giorni di tempo. Un’infinità.
Ma prima di tracciare lo scenario che potrebbe presentarsi per l’Italia nel quadro della Belt and Road Initiative, è necessario comprendere la rinnovata centralità del Mare Nostrum nell’ordine mondiale disegnato da Pechino e annunciato nel 2013 dal presidente della Repubblica Popolare cinese Xi Jinping. Negli ultimi anni la crescita economica cinese ha infatti determinato un impatto grandissimo sui flussi commerciali che attraversano il Mar Mediterraneo. Basti pensare che se nel 1995 le rotte transpacifiche rappresentavano il 53% dei traffici globali e quella Europa-Estremo Oriente solo il 27%, oggi il gap è azzerato: la seconda ha raggiunto il 42% mentre la prima è scesa al 44%.
Gli investimenti cinesi lungo le coste mediterranee
A indicare la prevalenza della “Road” marittima rispetto alla “Belt” terrestre sono gli investimenti di Pechino nei porti del Mediterraneo. Gli scali in cui la Cina sta investendo attraverso il colosso della logistica China Ocean Shipping Company (Cosco), si trovano sia sulla costa africana sia su quella europea dell’area Med.
In Africa gli investimenti strutturali cinesi sono relativamente vecchi, precedono almeno di 30 anni la Bri, anche se il progetto lanciato nel 2013 ne accelera decisamente il passo. Con un investimento di 10 miliardi di euro, la Cina ha avviato la costruzione di un Parco industriale a Tangeri, in Marocco, sullo Stretto di Gibilterra. Il polo potrà ospitare duecento multinazionali in una struttura di circa duemila ettari. Tempo di realizzazione 10 anni. Sul lato opposto della costa, la Cosco ha acquisito il 51% della Noatum Port Holdings,società che gestisce il più grande terminal container nel porto di Valencia (tra i primi porti del Mediterraneo) e l’unico dello scalo di Bilbao.
Passando a est del Mediterraneo, nel punto nevralgico del transito tra Asia ed Europa, la Cina è da tempo il più grande investitore nello sviluppo della regione intorno al Canale di Suez. Risale al 2009 l’avvio della costruzione della China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, perimetro strategico a ridosso dell’area dove è stato ampliato il Canale e a circa 120 chilometri dal Cairo. L’ampliamento ha reso Suez ancora più importante nello scacchiere mondiale anche in considerazione del cosiddetto gigantismo navale, vale a dire la presenza sempre più massiccia nel mercato marittimo di navi-container dalla portata fino a 20mila Teu (Twenty-foot Equivalent Unit, la misura standard di volume nel trasporto dei container pari a circa 40 metri cubi) sta provocando una vera e propria reazione a catena nei porti e nella logistica. Si tratta di navi lunghe quanto quattro campi di calcio e larghe 60 metri con una parte dello scafo immersa per oltre 17 metri.
In questo quadro Suez ha posto le premesse per rafforzare le economie e la competitività della rotta Europa-Estremo Oriente fino al punto da rendere più conveniente – anche grazie alle agevolazioni fornite dalla Suez Canal Authority – la rotta transatlantica per i cargo che dalla Cina puntano verso la costa orientale del Nord America.
Anche in Turchia la Cina è ben presente. Cosco ha infatti acquisito il 65% del Kumport Terminal, il terzo più grande del paese, a pochi di chilometri da İstanbul e quindi ben posizionato per collegarsi al corridoio terrestre della Bri proveniente dal Medio Oriente e, prima di tutto, per coordinarsi con il porto greco del Pireo.
E senza dubbio è proprio il Pireo l’hub logistico di riferimento per il fronte europeo della delle vie della seta. Acquisito nell’aprile del 2016 (il parlamento greco ha ceduto il 67% del porto alla Cosco in cambio di 368,5 milioni), il Pireo è passato da circa 500mila container l’anno a 3,6 milioni di Teu, con la previsione di raddoppiare. Nei piani di Pechino il porto greco dovrebbe collegarsi attraverso una rete di interscambi ferroviari con Serbia, Ungheria e Macedonia lungo la tratta Skopje, Belgrado, Budapest (la China-Europe Land-Sea Express Line, finanziata per l’85% dalla cinese Exim Bank) per poi dirigersi verso l’Europa occidentale. Trecentocinquanta chilometri per attraversare i Balcani ed entrare nel cuore del Vecchio Continente.
Su questa rotta non mancano tuttavia alcune difficoltà. Non solo per la poca stabilità della penisola balcanica, ma anche per questioni legate alla normativa internazionale. Nel febbraio del 2017 Commissione europea ha avviato un’indagine sulla rotta in questione per valutarne la fattibilità finanziaria e verificare se l’Ungheria – che ha affidato la costruzione dei binari ai cinesi – abbia violato la normativa europea secondo cui devono essere organizzate gare pubbliche per grandi progetti trasportistici transfrontalieri.
Un mare diviso in due?
La gestione dell’area mediterranea nel quadro della Bri è inoltre resa complessa anche dalla nozione stessa che del Mediterraneo ha la politica cinese. Nei tracciati ufficiali della Bri, il Mediterraneo viene presentato come la parte terminale della “Via della Seta Marittima” ossia della componente “Road” della Bri che collega i porti cinesi con quelli dell’Europa meridionale attraverso una serie di scali intermedi nell’Oceano Indiano.
Le istituzioni cinesi, però, non guardano al Mediterraneo come a una regione integrata. I paesi che vi si affacciano ricadono sotto due diverse giurisdizioni di due diversi dipartimenti del Ministero degli Esteri Cinese: il Dipartimento per gli Affari dell’Asia Occidentale e Nord Africa e il Dipartimento per gli Affari Europei. Non è tanto la questione amministrativa, quanto la visione che essa presuppone a fare problema, tanto che a essere separate per competenze su questi due “pezzi di Mediterraneo” sono le carriere stesse dei diplomatici cinesi, scandite da un’alternanza tra esperienze nei paesi di una determinata regione e periodi di lavoro al Ministero nel dipartimento che si occupa della medesima regione. Stessa frammentazione esiste all’interno di università, think tank e centri di ricerca, generando una scarsità di conoscenze sulla regione del Mediterraneo che mal si concilia con l’evidente espansione della presenza e degli interessi cinesi nell’area.
Che l’Italia possa giocare un ruolo di primo piano nello scacchiere sino-europeo lo si deve innanzitutto a geografia e storia. Affacciata sul Mediterraneo, la penisola è naturalmente candidata al ruolo di hub di collegamento tra la rotta terrestre e quella marittima delle vie della seta. A dimostrarlo ci sono millenni di scambi commerciali. Merci preziose, carta, spezie, ceramiche, cobalto e soprattutto idee hanno viaggiato dall’Estremo Oriente con destinazione Roma già dal II secolo a.C.
Alla fortuna di essere lì dov’è e di avere una tradizione commerciale e culturale grandissima, l’Italia deve tuttavia integrare col merito la possibilità di recitare anche in futuro una parte da protagonista in quel che lo studioso Peter Frankopan, docente di Global History a Oxford, definisce il “Cuore di un mondo policentrico”, in cui ogni regione è centro e periferia al tempo stesso.
I numeri economici sono incoraggianti ma (come sempre) c’è una ma, e riguarda la capacità di programmazione. Ma prima vediamo i numeri.
Italia terzo partner europeo della Cina
La crescita dell’interscambio commerciale tra Italia e Cina è a dir poco incoraggiante. Nel 2017 l’export cinese verso l’Italia è cresciuto del 10,6% mentre è salito del 22% l’import cinese dal nostro paese. Il tutto per un volume complessivo di oltre 49 miliardi di dollari, che fa dell’Italia il terzo partner europeo della Cina.
Notevole è anche il ritmo di crescita degli investimenti cinesi in Italia. Alla fine del 2013 ammontavano a meno di 1 miliardo di dollari, nel 2014 sono saliti a 3,5 miliardi di dollari e l’anno dopo sono cresciuti ancora fino a toccare quota 11 miliardi. Alla fine del 2016 anche gli investimenti italiani sono stati molto importanti, raggiungendo i 7 miliardi di dollari e in questo quadro si segnala l’acquisizione da parte del Silk road Fund del 5% del capitale di Autostrade per l’Italia da Atlantia.
Insomma, dai tempi di Marco Polo le distanze tra le sponde italiane e la Terra del Dragone sembrano non essere mai state così ravvicinate. Se è vero infatti, come scrive Giorgio Prodi su Orizzone Cina (vol. 7 num. 6, Novembre-Dicembre 2016), che con la Bri l’Europa “potrebbe, almeno in termini relativi, perdere parte della sua centralità economica”, è anche vero che “due sono gli aspetti che più possono avere impatto sulle imprese e quindi sull’economia italiana: le nuove reti ferroviarie che connettono la Cina all’Europa e il rafforzamento dei porti, in particolare nel Sud Europa”. A inquadrare questa rinnovata centralità nella cornice specifica della Belt and Road Initative è Marco Donati General Manager di Cosco Shipping Lines Italy, joint-venture tra la genovese Cosulich e il gruppo marittimo cinese Cosco, che ai discorsi iperuranici preferisce riferimenti concreti.
Con l’acquisizione di Cosco del controllo del porto del Pireo, la penisola può fungere da porta dell’Europa continentale e dei suoi mercati lungo il corridoio balcanico Pireo-Budapest. “Allo stato attuale – spiega Donati – le infrastrutture esistenti per attraversare i Balcani non consentono grandi margini di sviluppo ulteriore e quindi l’interesse verso una via di accesso italiano verso il Centro Europa sarebbe di sicuro interesse”. Cosco ha investito nel porto del Pireo dove il traffico è passato dai 600.000 Teus del 2010,agli attuali 3,6 milioni di Teus, e da dove oggi partono 10 treni alla settimana per l’Europa centrale. “Se si è riusciti a fare tutto questo in Grecia – si domanda Marco Donati – perché non si dovrebbe riuscire a farlo anche in Italia?” “Si può senz’altro anche in Italia – giudiziosamente aggiunge – a patto di completare gli investimenti infrastrutturali in corso senza ritardi, di ridurre l’impatto della burocrazia e di rendere più veloci ed efficienti le operazioni portuali”.
Sistemi portuali a confronto: Genova in pole
Lo Shanghai International Shipping Institute prevede che per il 2030 si muoveranno lungo la via della seta marittima da e per l’Europa almeno 40 milioni di Teu. L’Italia è pronta a intercettare una fetta, la più consistente, di questo flusso?
Per farlo serve dotarsi di infrastrutture adeguate. I principali scali della Penisola hanno avviato numerosi progetti corredati anche da autonome iniziative bilaterali. E’ il caso di Venezia, che ha firmato un memorandum d’intesa con Tianjin e Ningbo al capolinea orientale della via delle seta. La rotta Shanghai-Nord Adriatico è di circa 2 mila miglia marine più breve della Shanghai-Amburgo (8.630 miglia nautiche contro quasi 11 mila), che tradotto in tempo di navigazione significa otto giorni in meno, minori costi di trasporto e riduzione di 135 chilogrammi di Co2 per ogni container da Shanghai a Monaco di Baviera.
L’Autorità portuale di Venezia sta portando avanti anche il progetto sviluppato dal gruppo italo-cinese 4C3, composto dalla società 3Ti Progetti Italia ed E-Ambiente e China Communication Constructions Company Group, quinto general contractor mondiale), che prevede la piattaforma d’altura al largo di Malamocco in connessione con quattro terminal di terra: Montesyndial (Marghera), Chioggia, Mantova e Porto Levante. 4C3 dovrà sviluppare il terminale per ovviare al problema dei fondali troppo bassi (circa 12 metri) e ampliare la capacità di ricezione delle merci. Il porto di Venezia può infatti attualmente accogliere navi che portano container per al massimo 7 mila teu. Secondo il progetto, navi a basso pescaggio potranno permettere l’attracco in altura delle grandi porta-container cinesi da 400 metri di lunghezza e centinaia di migliaia di tonnellate di stazza favorendo così la connettività con il Far East.
In collaborazione con Trieste, Capodistria (Slovenia) e Fiume (Croazia), Venezia ha inoltre creato l’Associazione dei porti del Nord Adriatico (Napa) per sostenere lo sviluppo coordinato delle infrastrutture marittime, stradali, ferroviarie e tecnologiche in chiave Bri e la creazione di un sistema portuale offshore/onshore rappresenta una delle proposte programmatiche di punta. Tra le città del Nap va segnalato il particolare interesse di Pechino per Trieste in ragione della fiscalità di vantaggio assicurata dal fatto di essere l’unico porto europeo che gode di extraterritorialità doganale.
Analoga iniziativa associativa è stata intrapresa anche sul lato tirrenico, dove Genova, Savona-Vado e La Spezia hanno creato insieme la Ligurian Port Alliance per competere con i porti del Nord Europa. Non solo, si è passati anche già ai fatti con diverse operazioni infrastrutturali. Nell’ottobre 2016, la Cosco ha acquisito il 40% della Vado Holding dalla Maersk Group’s Apm Terminal e ha cominciato a partecipare alla gestione del terminal container di Vado Ligure. Completato alla fine di quest’anno, sarà l’unico terminal semiautomatizzato del Nord Italia in grado di gestire le megaportacontainer da oltre 18 mila teu per un potenziale di movimentazione di 900 mila teu l’anno. Non solo, da febbraio 2016, al Voltri Terminal Europa, il più grande terminal del Porto di Genova, sono in azione le maxigru “gooseneck” (a collo d’oca) in grado di gestire navi da 20 mila teu.
“Non prendiamoci in giro – dice senza mezzi termini Rino Canavese, ex presidente del porto di Savona e oggi membro del Consiglio di gestione della nuova Autorità portuale che ha accorpato Genova e Savona – l’Italia potrà rispondere alla sfida epocale rappresentata dalla Belt and Road Initiative solo nella misura in cui saprà rispettare i tempi. E i tempi ci dicono che nel 2020 il sistema portuale ligure sarà pronto”. Al completamento del terminale container di Vado e al potenziamento del Voltri fa da cornice la progressiva realizzazione di una serie di opere che promettono di rendere affidabile in tempi ragionevoli la logistica con epicentro genovese, a cominciare dal terzo valico ferroviario previsto nel 2021. Sì perché se i porti sono importanti, i retroporti non sono da meno. “Condizioni essenziali per aver anche solo diritto di cittadinanza sulle nuove rotte della seta – afferma perentorio il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale Paolo Emilio Signorini – sono sì portacontainer di ultima generazione ma è altrettanto un sistema ferroviario in grado di far viaggiare treni lunghi 750 metri”.
Se mettere a posto il sistema portuale è la premessa per partecipare alla partita inaugurata dalla Bri, per vincere la gara serve rendere performanti le aree retroportuali. Le rotte “italiane” delle vie della seta dovranno pertanto configurarsi non solo come centro di smistamento merci ma anche come centro di lavorazione e di trasformazione di materie prime e semilavorati. Ne va della moltiplicazione del business. In questo senso si segnala il polo logistico di Rivalta Scrivia. Collocato su un’area totale di proprietà di circa 1.200.000 metri quadrati, Rivalta Terminal Europa (controllata da Katoen Natie e il Gruppo Gavio) opera oggi su una superficie di 250.000 metri quadrati e rappresenta la prima fase di un progetto di sviluppo per ulteriori 650.000 metri quadri nei prossimi anni.
L’indispensabile ruolo della logistica ferroviaria
Per essere parte della Bri è dunque essenziale sia l’adeguamento dei sistemi logistici portuali, sia l’integrazione dell’Italia nella rete ferroviaria europea con il completamento dei corridoi della Trans European Network-Transport (Ten-t), che dovrebbero entrare in funzione nel 2030. Se vuol diventare il terminal d’Europa, l’Italia dovrà presto offrire a partire da Genova tempi di transito più favorevoli rispetto agli operatori del Nord Europa, ribaltando completamente il quadro attuale. A spiegarlo bene è Paolo Foietta, Commissario straordinario del Governo per l’asse ferroviario Torino Lione. “Il nostro mercato – dice con rammarico – è oggi servito dai porti del Nord. Dai nostri sistemi portuali serviamo esclusivamente il mercato nazionale e abbiamo difficoltà ad impostare in modo consistente quote di traffico verso il mercato Svizzera, Baviera e area di Stoccarda. In termini economici sull’import registriamo una perdita di gettito fiscale sulle merci che viene stimato in 2-3 miliardi di euro anno”.
Terzo valico e il tunnel del Moncenisio potranno spalancare i corridoi verso Svizzera, Germania e Francia ponendo fine al monopolio antieconomico e per di più dall’impatto ambientale elevatissimo del trasporto su gomma. Il traffico ai valichi con la Francia, per esempio, è cresciuto in modo costante negli ultimi 4 anni toccando quota 42,4 milioni di tonnellate di merci nel 2016, di cui solo il 7,7% su rotaia. Tradotto nella realtà quotidiana, significa che ai valichi tra Italia e Francia transitano in media 2,7 milioni di Tir all’anno. Siamo di fronte al peggior squilibrio modale dell’arco alpino con tutto quel che ne consegue in termini di costi, inquinamento, consumi, ritardi, competitività. Sui valichi svizzeri invece accade esattamente il contrario, cresce il trasporto ferroviario per un totale di 40 milioni di tonnellate di merci nel 2016 e diminuisce il traffico di Tir. Oggi se ne contano in media 975mila l’anno e le autorità svizzere contano di dimezzarli entro la fine dell’anno grazie all’apertura del Tunnel de Ceneri.
Torino-Lione, in arrivo i bandi (finalmente)
Straordinaria piattaforma logistica del Mediterraneo, l’Italia ha una barriera naturale (le Alpi) “antropizzata” nel corso degli anni con valichi ormai inadeguati a un mondo sempre più piccolo fatto di persone e merci che hanno bisogno di muoversi sempre più in fretta. Ritardi e mancati investimenti si traducono in un maggiore costo del sistema del 10% rispetto al resto dell’Europa e in una dipendenza a dir poco paradossale dai porti del Nord Europa.
“Bisogna fare presto e uscire da questo insostenibile collo di bottiglia del traffico su gomma. Se attrezziamo i nostri porti per rispondere ai traffici merce della nuove vie della seta non è pensabile smistare poi questa merce su milioni e milioni di Tir”, sentenzia Foietta. Un segnale concreto in questo senso è la prossima pubblicazione dei primi bandi per appaltare le opere della Torino-Lione. Sono 81 i bandi di gara articolati su 12 cantieri operativi tra Italia e Francia per la realizzazione della sezione transfrontaliera che, secondo le stime, riguarderanno oltre 20mila imprese e 8mila lavoratori, diretti e indiretti. Gli appalti hanno un valore di 5,5 miliardi di euro, come previsto dal planning del grant agreement sottoscritto con l’Ue.