Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2013 - page 69

RITRATTI
CIVILTÀ DEL LAVORO
IV • V - 2013
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Cercai allora di indirizzarmi all’unica altra arte disponibile,
quella tipografica appunto.
Ne avevo cominciato ad apprezzare i vantaggi dopo aver
fatto la conoscenza con il signor Ostromann, un profugo
istriano costretto a lasciare Pola alla fine della guerra, a
seguito dell’invasione delle truppe di Tito.
Esperto tipografo, aveva ottenuto un lavoro come com-
positore di caratteri all’Umberto I. La sua abilità mi affa-
scinava, come quel mestiere che mi sembrava particolar-
mente interessante.
Ma c’era anche un motivo pratico: a chi lavorava con ma-
teriali di stampa venivano dati 100 grammi di pane e un
quarto di latte in più, quasi un risarcimento per essere
stati a contatto con piombo e sostanze chimiche ritenuti
dannosi per la salute.
Fu proprio da lì che cercai di ripartire, appena fuori dal
vecchio Serraglio. Mi resi conto tuttavia che l’esperien-
za del Serraglio costituiva per me una credenziale all’in-
contrario. Andavo a propormi nelle tipografie: “Vi serve
un compositore a mano?” Mi rispondevano con un’altra
domanda: “Sentiamo, dove hai imparato il mestiere?”. E,
quando dicevo che ero stato all’Umberto I, mi stroncava-
no: “Dove, al Serraglio?”. Era un marchio di fabbrica, la
garanzia che, puntualmente, sentendo la mia provenien-
za, i miei interlocutori avrebbero fatto un passo indietro.
Dovevo sopravvivere. Decisi di mettermi a fare altro. Scon-
trandomi, ogni volta, con il mio carattere, insofferente a
ogni ingiustizia e abuso.
Mi cimentai nell’edilizia e nelle opere pubbliche. Ma erano
lavori a giornata. Feci l’asfaltista. Poi il muratore a secco.
Alla tipografia dell’orfanotrofio avevano avuto una grossa
commessa per stampare i pacchetti di sigarette nazionali.
C’era lavoro per milioni di copie, da stampare e tagliare
a pacchetti. Si lavorava di giorno e di notte.
Non avevano molti operai. Ce n’era uno, A., un ex alunno
poi assunto in tipografia come tagliatore, che non voleva
lavorare di notte perché sosteneva di vedere i fantasmi.
Il capo operaio, Armando Faggiano, era anche lui un ex
alunno e mi conosceva. Suggerì al direttore della tipogra-
fia, il dottor Scarpetta, di chiamarmi a fare compagnia ad A.
Fu così che rientrai all’Umberto I, stavolta da lavoratore.
A salvarmi da A., invece, fu la crescita ulteriore della tipogra-
fia. Arrivò un prestigioso incarico da parte del Poligrafico
»
Sappiamo che tanti altri personaggi, come Orazio, hanno
contribuito a creare quell’industria italiana che, con alter-
ne vicende e con difficoltà e criticità maggiori o minori
nelle diverse aree della Penisola, ha fatto del Paese una
delle principali potenze economiche del mondo.
Viviamo tempi difficili. Non solo l’Italia, ma l’intero Occi-
dente deve fare in conti con il nuovo protagonismo di Pa-
esi che stanno rifondando il tradizionale assetto del pote-
re economico mondiale, e con una crisi di portata tanto
grave da essere assimilabile, pur nella profonda diversità
delle cause, a quella degli anni trenta.
L’esempio di Orazio e di quelli come lui dimostra che qual-
siasi sfida può essere vinta. La tenacia, l’ingegno e la de-
terminazione, pur se orientati verso modelli innovativi di
impresa, in cui la competitività si misura anche attraver-
so l’aggregazione e il fare sistema, sono un patrimonio
della nostra imprenditoria. Della nostra gente.
“io venivo dalla strada.
la mia fortuna nella vita
è scaturita dalla mia
sfortuna"
Orazio Boccia riceve dal Capo dello Stato l'onorificenza dei Cavalieri
del Lavoro (2008)
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