Civiltà del Lavoro, n. 3/2014 - page 27

CIVILTÀ DEL LAVORO
III - 2014
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INCHIESTA
imprese prevale la tendenza a scegliere il miglior candi-
dato possibile, a prescindere dall’appartenenza familiare.
Mini bond, private equity, quotazione in Borsa. Sono
tante le forme di finanziamento alternative al credi-
to bancario che potrebbero far affluire nuove risorse.
Nelle aziende familiari c’è interesse o perplessità?
L’interesse c’è ed è crescente, sostenuto anche dal fatto
che il credito bancario si è rarefatto ed è diventato più co-
stoso. Per questo motivo le imprese si trovano a dover spe-
rimentare altre strade per l’approvvigionamento di risorse.
A riprova di questa attenzione citerei il caso del Fondo Ita-
liano di Investimento, che negli ultimi due anni – tra in-
terventi diretti e indiretti – ha coinvolto circa 100 aziende.
Considerato che opera attivamente da appena tre anni e
mezzo e che la platea alla quale si rivolge (medie azien-
de con elevato potenziale di crescita, ndr) consta di circa
10-12mila imprese, direi che è un buon inizio.
Naturalmente l’adozione di questi strumenti richiede la
compresenza di alcuni requisiti, a partire da un piano di
sviluppo ambizioso, una governance professionale, un ma-
nagement preparato e un sistema di pianificazione eco-
nomico-finanziaria ben strutturato. L’approccio non è privo
di rischi: nel caso dei fondi di private equity le aziende fa-
miliari si confrontano con un socio terzo, con il quale pe-
rò il rapporto non può essere lo stesso che le medesime
avevano con gli istituti di credito.
In generale c’è un po’ di timore, come nei confronti di
qualsiasi cosa nuova, ma le imprese familiari oggi sono
comunque più attente a valutare questi strumenti. La stes-
sa crisi, d’altronde, ha innalzato gli standard minimi di go-
vernance e gestione aziendale necessari a queste come
ad altre operazioni.
Secondo lei c’è più consapevolezza dell’importanza di
gestire in modo corretto il passaggio generazionale?
Assolutamente sì, soprattutto riguardo alla tempestività
con cui affrontarlo. Permane, invece, una certa resistenza
da parte degli imprenditori italiani a riconoscere il contri-
buto che la conoscenza accademico-scientifica può dare
su questo argomento. È un’affermazione che nasce anche
da una personale rilevazione empirica: partecipando, in-
fatti, a numerosi convegni internazionali sulle imprese fa-
miliari, noto come gli italiani siano spesso pochi rispetto,
ad esempio, a tedeschi e spagnoli, quando non del tutto
assenti. Il motivo? Forse le dimensioni aziendali più con-
tenute riducono il tempo da poter dedicare a questi ap-
puntamenti, ma credo dipenda anche da una cultura ita-
liana un po’ autoreferenziale.
Quando cominciare a preparare il terreno?
Presto. A partire già dai 16 anni bisognerebbe sondare se
i propri figli hanno interesse per gli studi universitari o se
magari sono portati per attività più pratiche. In ogni caso
occorre dedicare loro tempo e attenzione. L’ingresso in
azienda, che solitamente avviene intorno ai 27/28 anni,
è un passaggio successivo. Fermo restando che bisogna
sempre tenere conto delle aspirazioni personali e della
libertà dei singoli di costruire il proprio futuro.
Quali prospettive intravede per le aziende familia-
ri italiane alla luce dei nuovi scenari internazionali?
Positive, a patto di compiere qualche scelta più coraggio-
sa in fatto di acquisizioni. Cosa che si ottiene anche gra-
zie a consigli di amministrazione efficienti, in termini di
indirizzo e controllo, e aperti a componenti anche non
della famiglia.
All’estero c’è una forte ricerca di identità, le nostre azien-
de familiari connotano in questo senso qualsiasi prodot-
to che fanno, a prescindere dal settore di appartenenza.
A un cliente asiatico, ad esempio, fa piacere sapere che
l’azienda meccanica presso la quale si rifornisce lavora
da 50 anni sullo stesso territorio e ha valorizzato i pro-
pri giovani. E spesso, infatti, viene a conoscere di perso-
na queste realtà.
Silvia Tartamella
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