Civiltà del Lavoro, n. 6/2014 - page 109

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INTERVISTA
CIVILTÀ DEL LAVORO
VI - 2014
che è nato il made in Italy e che il “Salone del Mobile” ha
conquistato il rango di appuntamento più importante al
mondo per il settore arredamento. Il plus del nostro Pae-
se era anche un altro: alla creatività l’Italia univa la produ-
zione, ovvero una platea di piccole e medie aziende che
lavoravano in perfetta simbiosi con i designer.
Cosa era la Moroso prima del suo ingresso in azienda
e qual è la sua identità oggi?
Era una media azienda familiare, nata negli anni Cinquanta
come “bottega artigiana” e cresciuta a poco a poco grazie
alla volontà di proporre un prodotto sempre di qualità. Una
storia non diversa, insomma, da quella di molte altre pmi
italiane, dove è l’imprenditore a rischiare in prima perso-
na. Con me tutto questo non è stato messo da parte, an-
zi, ma ho gradualmente conferito all’azienda un’identità
“design oriented”. È stata una scelta istintiva – il concet-
to di brand in Italia era agli albori – ma ero consapevole
che per superare la crisi occorreva distinguersi. Devo di-
re che il tempo mi ha dato ragione, queste sono conqui-
ste di lungo periodo, che non arrivano da un giorno all’al-
tro. L’aspetto artigianale è rimasto ed è stato perfezionato
anche grazie al contributo creativo dei miei designer, ai
quali ho chiesto di recuperare antichi ricami e decorazio-
ni. Le nostre maestranze poi, oltre ad essere bravissime
e in Italia (a Cavalicco, in provincia di Udine, ndr) , lavora-
no prendendosi il tempo che è loro necessario. Produrre
in Cina, come qualche collega ha fatto in passato, non ha
senso. Ci si precluderebbe lì stesso una fascia importante
di acquirenti che ama e riconosce all’Italia il primato as-
soluto nel settore dell’arredamento.
Le nostre produzioni all’estero, che pure abbiamo ma in
misura limitata, nascono piuttosto come progetti cultura-
li, basati ad esempio sul recupero di antiche tecniche di
ricamo, che per motivi – oserei dire “filologici” – devono
essere realizzate in loco. È il caso di “Charpoy”, un pro-
getto realizzato una decina di anni fa insieme a una de-
signer indiana, nel quale abbiamo reinterpretato con un
tocco italiano un tipo di seduta orientale tradizionale, che
funge ora da poltrona ora da letto. Più recentemente, in-
vece, ricordo M’Afrique, una collezione per l’outdoor fatta
totalmente in Senegal, nella quale i fili usati comunemen-
te per la pesca – coloratissimi affinché ciascun pescatore
riconosca il proprio – vengono intrecciati sino a realizza-
re sedute e oggetti per giardini e terrazzi. A mio avviso,
è anche un bel modo per aiutare l’Africa.
Nel corso della sua carriera “ha scoperto” e dato fidu-
cia a molti designer ben prima che diventassero famo-
si. Come intravede le potenzialità di una partnership?
Intuito, fortuna. So che non è una vera e propria spiega-
zione, ma per me è così. Quando un architetto mi mostra
il suo book o mi racconta quello che fa, capisco subito se
ha del talento. In Italia tra i giovani sento qualche vento
di cambiamento, ma purtroppo non posso che constatare
come molte risorse siano state sottratte nel tempo all’i-
struzione e alla cultura in generale. Nelle scuole di design
mancano i laboratori, che in un mestiere come il nostro
sono fondamentali. Quando confronto i lavori dei nostri
ragazzi con quelli olandesi, per esempio, c’è una differen-
za abissale. Ai ragazzi italiani non viene data una prepara-
zione sufficiente e così sono costretti a completare la lo-
ro formazione all’estero, ritardando l’ingresso nel mondo
del lavoro. Altrove non è così. Penso alla Cina, dove ab-
biamo da poco inaugurato il nostro primo flagship store a
Pechino (cui ne seguiranno quattro entro la fine dell’an-
no, ndr) e dove gli architetti, sia giovani che più maturi,
stanno recuperando un rapporto con la propria cultura in
un modo molto raffinato e consapevole. E dove ai mag-
giori architetti chiedono di costruire università.
Viene spesso definita “la signora del design italiano”.
La lusinga o la sente una definizione troppo stretta?
La prendo con ironia perché non rappresenta il modo in
cui mi percepisco. Mi sento piuttosto una ‘ricercatrice ap-
passionata’ e penso che il mondo del design sia pieno di
persone interessanti, con una visione delle cose ben pre-
cisa. Un bravo designer in un oggetto esprime un lavoro
di sintesi pazzesco, conosce l’architettura, la storia dell’ar-
te. Insomma, sono persone affascinanti e per me è un
privilegio lavorare con loro.
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