Civiltà del Lavoro, n. 6/2014 - page 23

CIVILTÀ DEL LAVORO
VI • 2014
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Marco Cantamessa
piccole imprese con poca visione strategica e una Pub-
blica amministrazione attenta più al rispetto della norma
e alla riduzione dei costi immediati che all’efficacia della
spesa, di fatto non determinano una domanda sufficien-
te per beni e servizi innovativi.
Questo è un problema non solo per le startup, ma anche
per la stessa competitività del Paese. Il governo dovrebbe
agire su questo fronte: liberalizzazioni, per creare maggio-
re concorrenza e stimolare la “necessità di innovare” da
parte delle imprese, e azioni di “public technology pro-
curement” per qualificare la spesa pubblica e migliorare
i servizi resi ai cittadini.
Il mondo delle banche e della finanza dimostra una
sufficiente attenzione a questo settore?
In tutto il mondo le banche hanno un ruolo marginale nei
confronti delle startup perché queste ultime devono finan-
ziarsi soprattutto con capitale di rischio. Ritengo comunque
che le banche italiane siano abbastanza attente al feno-
meno e stiano iniziando – seppur con un po’ di lentezza –
a operare correttamente usando i meccanismi di garan-
zia che il Fondo Centrale riserva alle startup innovative.
Penso invece che le banche dovrebbero interagire con le
startup soprattutto finanziando l’acquisto dei beni e dei
servizi che esse propongono: molti prodotti proposti dal-
le startup hanno un ritorno sull’investimento molto rapido
e, in un momento storico con interessi nulli, finanziarne
l’acquisto con meccanismi come quello usato dalle Esco
(Energy Service Company, ndr) in ambito energetico, di-
venta una vera e propria miniera d’oro.
Se guardo al capitale di rischio l’Italia è molto indietro,
avendo un settore del venture capital minimale, in parti-
colare nel segmento early stage. Però, è un dato che ri-
tengo fisiologico: gli investitori non fanno che anticipare
le somme che si attendono di recuperare dai futuri clienti.
E, date le difficoltà di crescita delle nostre startup dovu-
te alla carenza di domanda, è normale che gli investito-
ri esitino, anche se non riescono a trovare in giro investi-
menti remunerativi.
La conseguenza, in termini di politiche pubbliche, è ovvia:
non ha senso investire soldi pubblici nel finanziamento
delle startup. Bisogna aprire la nostra economia per crea-
re domanda. E, quando la domanda ci sarà, state tranquilli
che l’enorme ricchezza privata che – per fortuna – abbia-
mo ancora nel nostro Paese, inizierà a rivolgersi anche al
capitale di rischio.
Se tutti questi sforzi avessero successo, in dieci anni
quante startup potrebbero nascere e con quanti po-
sti di lavoro?
Premetto che le startup sono in tutto il mondo quelle che
generano posti di lavoro netti e hanno continuato a farlo
anche in Italia, anche in questi anni di crisi.
Se ci concentriamo solo sulle startup innovative, ne na-
scono circa mille all’anno e ciascuna di esse crea, nel giro
di poco tempo, 4-5 posti di lavoro in media. Essendo una
media, essa mette insieme le poche startup che “ce la
fanno” e diventano rapidamente medie imprese, e quel-
le che invece rimangono su livelli occupazionali inferiori.
Se ci libereremo dai diversi “freni alla crescita” di cui ho
parlato sopra, penso che l’effetto maggiore non sarebbe
sul numero di startup, quanto sull’aumento delle dimen-
sioni medie.
Ma, anche se le start up non dovessero crescere sostan-
zialmente, finirebbero per diventare fornitrici di altre azien-
de – o venirne acquisite – generando un impatto indiretto
ma importantissimo sull’economia.
Non posso quindi dare dei numeri. Posso solo dire che, se
si lavorerà per tenere in piedi aziende ormai morte, l’oc-
cupazione scenderà e l’Italia proseguirà nel suo declino.
Se lavoreremo per sostituire le aziende morte con azien-
de nuove, l’occupazione salirà e con essa il Paese.
(p.m.)
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