Civiltà del Lavoro, n. 1/2015 - page 49

CIVILTÀ DEL LAVORO
I - 2015
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INCHIESTA
Agostino Gallozzi
tà globale di merci e persone in funzione delle esigenze
del sistema Italia. Occorre orientare le scelte e le deci-
sioni – attraverso l’elaborazione di modelli improntati alla
massima efficienza – nella direzione della costruzione di
un contesto produttivo capace di intercettare il consuma-
tore finale in maniera strutturata, ovunque si collochi nel
mondo. Come? Raggiungendo la dimensione del “winning
time” che va oltre il semplice “just in time”. Non basta
più, cioè, controllare la destinazione finale delle merci in
tempo reale, ma è indispensabile immaginare una serie
di servizi aggiuntivi che determinano quello che è pos-
sibile definire “tempo vincente” dal punto di vista della
competizione tra produttori.
Dando per scontato – e questo è un altro tassello fonda-
mentale – l’elevato standard qualitativo del made in Italy.
È pertanto evidente che la visione strategica di ogni per-
corso di sviluppo, capace di accrescere volume delle pro-
duzioni, Pil e, quindi, occupazione, deve tenere conto del-
la necessità di creare una “rete” fortemente integrata che,
attraverso una articolata offerta multimodale, garantisca
alle “aree vaste” presenti sul territorio nazionale il maggior
numero di interconnessioni competitive globali possibili.
Per un Paese con la posizione geografica e le caratteristi-
che orografiche come l’Italia, appare indubbio che il circui-
to portuale rappresenti il principale e più prezioso gate-
way di accesso ai mercati internazionali per le produzioni
manifatturiere, in particolar modo per quelle localizzate
nelle sue aree centro-meridionali.
In questo ambito è ampiamente condivisa dai diversi at-
tori della filiera portuale l’esigenza di attuare un percorso
finalizzato alla creazione di “piastre logistiche” multimo-
dali di livello regionale e interregionale.
Se lo scenario prospettico è questo, risulta evidente la cen-
tralità della capacità gestionale, amministrativa e operati-
va dei singoli scali marittimi, che devono rispondere alle
caratteristiche di “porte” di ingresso soprattutto attuando
disegni dinamici di riqualificazione infrastrutturale (piani
regolatori, dragaggi, nuove banchine, etc.) per riallineare
gli scali alle mutazioni dello shipping mondiale.
Proprio nell’ambito dell’upgrading infrastrutturale del Pae-
se – prerequisito per la gestione competitiva della mobili-
tà transglobale, precondizione necessaria (ma ovviamente
non sufficiente) per orientarsi ancora più marcatamente
all’export – entrano in campo le capacità gestionali e rea-
lizzative rispetto al tema “investimenti pubblici e privati”.
Non è azzardato affermare che costruire opere in Italia è
obiettivo da “mission impossibile”.
E, si badi bene, non sempre per la mancanza di fondi.
È noto, per esempio, che il porto di Napoli non riesce a
spendere centinaia di milioni di euro – che potrebbero a
questo punto rientrare nelle casse dell’Unione europea –
destinati proprio ad interventi infrastrutturali.
Fondi che andavano rendicontati entro la fine del 2015 e
che non sono stati neanche appaltati. Ma è possibile citare
numerosi altri clamorosi casi legati alla scarsa efficienza
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