Civiltà del Lavoro, n. 2/2014 - page 48

CIVILTÀ DEL LAVORO
II - 2014
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DOSSIER
INVESTIAMO
SUL
CAPITALE UMANO
Da anni l’Italia soffre una costante perdita di ricercatori e talenti che ne compromette il futuro.
Ne abbiamo parlato con Stefano Semplici, Direttore scientifico del Collegio Universitario “Lamaro
Pozzani”e curatore del libro-intervista “Italia no, Italia forse”. La diaspora italiana,
però, può trasformarsi in un’opportunità.
che abbiamo cercato di affrontare con un metodo diver-
so da una trattazione accademica. Il libro, nato all’inter-
no del Collegio Lamaro Pozzani, raccoglie una serie di in-
terviste a studiosi che sono tornati dagli Stati Uniti dopo
aver raggiunto posizioni importanti. Abbiamo cioè pun-
tato a valorizzare il contributo di persone che hanno avu-
to successo nell’ambiente più stimolante e competitivo e
possono per questo aiutare il nostro sistema a liberarsi di
incrostazioni e abitudini paralizzanti.
Con quali strumenti l’Italia potrebbe allora trasformare
l’attuale “brain drain” in un “brain gain” di successo,
sull’esempio di quello indiano di cui parla nel libro?
Il “villaggio globale” nel quale viviamo non consente di
coltivare nostalgie isolazioniste e dunque una strategia che
sia semplicemente di “difesa”, orientata cioè a politiche
coercitive di contenimento dell’emigrazione qualificata, è
semplicemente impraticabile. L’esperienza dell’India, da
lei ricordata, illustra la strategia della “rete”, che è una
delle due opzioni sulle quali mi soffermo nell’introduzio-
ne. Molti studi, in questi ultimi anni, hanno evidenziato
il potenziale effetto di traino della diaspora dei lavorato-
ri della conoscenza, con particolare riferimento ai paesi
in via di sviluppo e a condizione che quelli più avanzati
promuovano rapporti di collaborazione fra gli studiosi che
hanno accolto e le loro comunità di origine. Questa azio-
ne di networking, in un paese di medie dimensioni e co-
munque agganciato alla prima classe dello sviluppo come
l’Italia, non può essere ovviamente sviluppata negli stessi
termini, ma sarebbe comunque importante cominciare a
pensare ai nostri “cervelli” all’estero come a un’opportu-
nità piuttosto che una perdita secca.
L’altra strategia resta quella della “sfida”, cioè del corag-
gio di puntare sui centri di eccellenza che in Italia anco-
Quello dei “cervelli in fuga” è un tema molto discus-
so. Quale chiave di lettura offre il suo libro?
Abbiamo cercato di sviluppare un’idea e un metodo. L’i-
dea è quella che occorra preoccuparsi non delle intelli-
genze che se ne vanno, ma di quelle che non arrivano,
non dell’evidenza del “brain drain”, ma dell’incapacità del
paese di proporsi come protagonista dei flussi di “brain
circulation”, che rappresentano uno dei fattori di spinta
più potenti della globalizzazione. È normale che i talenti
vadano in cerca delle opportunità migliori per crescere.
Il problema nasce – ed è il caso dell’Italia – quando questo
movimento avviene a senso unico o quasi. Siamo “ino-
spitali” non solo per gli investimenti, ma anche per la ri-
cerca di livello internazionale e, più in generale, per tutti
i lavoratori altamente qualificati. A partire, ovviamente,
dagli stessi italiani. Mi limito a citare un dato. Regno Uni-
to, Svizzera, Germania e Francia guidano la classifica dei
paesi verso i quali si indirizza questo particolare tipo di
emigrazione. I “rientri” equivalgono ad appena il 40% del
flusso in uscita, mentre la nostra capacità di “attrarre” gio-
vani da questi paesi è vicina allo zero. Questa è la sfida,
Stefano Semplici
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