Civiltà del Lavoro, n. 2/2014 - page 47

CIVILTÀ DEL LAVORO
II - 2014
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DOSSIER
E questo ci porta all’altro corno del problema, cioè la
nostra capacità di attrarre cervelli dall’estero. Parec-
chie Università hanno varato programmi per studenti
stranieri, ma l’impressione è che siamo molto indie-
tro rispetto agli altri grandi Paesi.
Per valutare l’impatto dei cervelli stranieri che vengono
in Italia non bisogna pensare solo alle Università. Ci sono
anche le aziende multinazionali e nessuno sa quanti ma-
nager e professionisti che lavorano in Italia sono stranieri.
A giudicare dalle aziende industriali, finanziarie o terzia-
rie con cui ho rapporti di lavoro, non c’è azienda stranie-
ra in Italia che non abbia manager o quadri stranieri. Gli
scambi di management sono costanti: italiani vanno a la-
vorare all’estero e stranieri vengono da noi. E questo crea
uno scambio positivo, che arricchisce il nostro sistema.
Ci sono parecchi laureati anche tra gli immigrati di li-
vello più basso?
Questa è una cosa nuova: tra gli immigrati che vengono
in Italia in cerca di lavoro o di asilo molti sono laureati
o diplomati. Ho sentito l’intervista di una direttrice di un
campo di raduno di immigrati che diceva che con i suoi
“ospiti” si discute benissimo, perché in maggioranza so-
no laureati. Nel 2013 sono arrivati in Italia 92mila immi-
grati laureati. Ai cervelli che vanno nei posti apicali del-
le multinazionali, si aggiungono questi immigrati ai piani
bassi della scala sociale, che spesso hanno frequentato
università non inferiori alle nostre. Quindi la nostra “bi-
lancia dei pagamenti dei cervelli” è in grande attivo. Solo
che a questi immigrati-laureati facciamo fare i camerie-
ri perché il nostro sistema non riesce a utilizzare meglio
questi cervelli.
E come si potrebbe usarli meglio?
In un momento in cui il 42% dei giovani italiani è disoc-
cupato e ci sono 800mila giovani “neet” che non lavora-
no e non studiano, è molto difficile programmare un mi-
gliore utilizzo degli immigrati laureati. Bisogna capire che
siamo in presenza di un cambiamento epocale e dobbia-
mo modificare la prospettiva. Bisogna capire che è bene
avere giovani laureati, anche se poi non viene garantita a
tutti un’occupazione adeguata alla laurea. Brutalmente, si
potrebbe dire che è meglio avere un disoccupato laureato
che un disoccupato analfabeta, anche perché l’educazio-
ne è un requisito della cittadinanza. Al ministro dell’Istru-
zione di fine Ottocento che fece la legge sulla quinta ele-
mentare obbligatoria l’opposizione parlamentare di allora
obiettava: che ce ne faremo di tanti alfabetizzati, come
faremo a dare a tutti loro un lavoro adeguato? Obiezio-
ni che oggi non hanno senso. Una laurea non serve solo
per lavorare, ma anche per vivere meglio, per assestare
il Paese su un livello più diffuso di cultura, al quale non
deve corrispondere necessariamente un lavoro preciso.
Ma allora, per evitare che la laurea determini l’aspet-
tativa di un posto di lavoro adeguato, non varrebbe la
pena abolire il valore legale del titolo studio?
Non necessariamente. La laurea è la certificazione data
da una trentina di professori che attestano che il laurea-
to ha una buona conoscenza medica, giuridica, ingegne-
ristica perché ha sostenuto con successo una trentina di
esami e una prova finale. Perché togliere valore legale a
questo attestato? L’equivoco sul fatto che la laurea non
dà diritto a un determinato lavoro non si cancella con un
altro equivoco.
Siamo dunque condannati ad avere laureati italiani
disoccupati e laureati immigrati che continuano a fa-
re i pizzaioli o i camerieri?
Almeno finché non ci convinceremo che tutti i fenomeni
che riguardano il lavoro vanno visti in una prospettiva di
redistribuzione generale del lavoro. Oggi basta un compu-
ter per far sì che la produttività si moltiplichi per tre o per
quattro. I bancomat, costruiti da qualche decina di ope-
rai, hanno provocato l’esubero di 3.500 cassieri di banca. I
3.000 operai che in Cina costruiscono gli Ipad stanno cau-
sando milioni di disoccupati in Occidente. Ma non biso-
gna fraintendere: è un bene che finiscano i vecchi lavori
stupidi e ripetitivi a vantaggio dei nuovi lavori intelligenti
e creativi, a patto che si riesca a distribuire più equamen-
te il lavoro intelligente e creativo e si riesca a evitare che
da una parte i laureati occupati lavorino 12 ore al gior-
no e dall’altra parte aumentino i laureati disoccupati
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