Civiltà del Lavoro, n. 2/2014 - page 49

CIVILTÀ DEL LAVORO
II - 2014
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DOSSIER
ra ci sono e magari di realizzarne altri per attrarre talen-
ti. È una strada più difficile e costosa. Ma può l’Italia, che
tanto ha contribuito alle più grandi scoperte scientifiche
degli ultimi centocinquanta anni, restare semplicemen-
te a guardare?
In base alla sua esperienza, in che misura il mondo
accademico è consapevole del fatto che l’università
italiana, nel suo complesso, risulta poco attrattiva a
livello internazionale? Si sta facendo qualcosa per pro-
muovere un cambiamento dall’interno?
A parole, come troppo spesso accade in Italia, c’è piena
consapevolezza della gravità della situazione. Mancano i
fatti. C’è forse anche un equivoco sul tema della valuta-
zione, la cui necessità, dopo molte esitazioni e resisten-
ze, viene finalmente riconosciuta da tutti. Anche in questo
campo abbiamo bisogno di “fare sistema”, più che di ali-
mentare una sorta di confitto darwiniano per la sopravvi-
venza di pochi al prezzo di un radicale impoverimento del-
la qualità media e diffusa della formazione e della ricerca
di livello universitario. Ma questo è un tema che richiama
immediatamente la responsabilità del decisore politico.
Una delle maggiori criticità che lei sottolinea è l’esigui-
tà delle risorse investite, sia nella formazione terziaria
che in ricerca e sviluppo. Come risolvere il problema?
Semplicemente cambiando i numeri. L’Italia è nelle ulti-
missime posizioni di tutte le graduatorie Ocse che misu-
rano l’impegno dei diversi paesi per il finanziamento delle
università e della ricerca. In qualche caso è proprio il fa-
nalino di coda. Anche in un momento di crisi come quel-
lo che stiamo attraversando, è indispensabile dimostrare
concretamente il significato strategico di questo settore
per il futuro del paese. Ovviamente, anche facendo delle
scelte e intervenendo con decisione sulle sacche di inef-
ficienza e di spreco. In Italia, purtroppo, continuiamo non
solo a spendere troppo poco, ma anche a spendere male.
Perché ritiene che nelle università “va difesa l’unità
inscindibile della ricerca e della didattica”?
Rispondo con le parole di Harry Lewis, che è stato presi-
de dello Harvard College dal 1995 al 2003.
Nel suo libro “Excellence without a Soul. Does Liberal Edu-
cation have a future?”, pubblicato nel 2007, egli rilancia
provocatoriamente la domanda sulla “mission” dell’Uni-
versità, in un contesto nel quale la ricerca rischia di essere
troppo condizionata da fattori esterni e gli studenti sono
spesso costretti a prendere atto che “troppi membri del
corpo accademico non si interessano a loro, se non come
potenziali accademici, e che il curriculum è disegnato in-
torno agli interessi del corpo accademico più che a quelli
degli studenti o delle loro famiglie”.
Negli ultimi anni i procedimenti di valutazione e tutti i rela-
tivi incentivi (teorici…) si sono concentrati sui prodotti del-
la ricerca. Ma un professore universitario che non insegna
non è un professore. Ce lo ricordano proprio da Harvard.
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